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    La storia sanguinosa della fabbrica del terrorismo palestinese a Jenin

    Jenin

     

    Che cosa hanno in comune la morte della giornalista palestinese Shireen Abu Aqleh mercoledì scorso, quella di Noam Raz, agente di un gruppo scelto antiterrorismo della polizia israeliana, venerdì scorso e l’evasione di sei pericolosi terroristi dal carcere speciale di Gilboa, a settembre 2021? Sono episodi diversi, ma in comune hanno un nome, anzi il luogo che questa parola designa, Jenin. Si tratta di una località all’estremità settentrionale dei territori controllati dall’Autorità Palestinese, quindici  chilometri a sud di Afula e venti a est di Cesarea. Non ha un passato cospicuo, anche se come ogni posto in Israele vi si trovano tracce di insediamenti ebraici dell’antichità (il suo nome porta ancora la traccia di quello dei tempi del regno di Israele, che era “ein ganim”, sorgente dei giardini e vi sono numerosi resti archeologici nella collina prospicente la città). Ma non vi è successo niente di speciale fino alla guerra di indipendenza del 1948, quando Jenin fu brevemente presa dalle forze israeliane con una dura battaglia e dopo l’armistizio ospitò un campo profughi, che è ancora lì, un quartiere affollato da circa 20 mila abitanti a fianco della città che ne ha in tutto circa 60 mila (l’intera provincia ne ha 330 mila). Fino al ‘67 Jenin era “Cisgiordania”, cioè una parte del mandato di Palestina occupata dal regno di Giordania; poi fu preso da Israele e fu tra le prime località trasferite all’Autorità Palestinese ne 1996.

     

    La base terrorista

     

    E’ difficile dire se questo passato sia stato determinante per quel che è diventata la città. Fatto sta che Jenin è diventato il punto più caldo del terrorismo palestinese. Durante la prima ondata terrorista degli anni Novanta, precedente gli accordi di Oslo, nel campo profughi di Jenin c’erano 200 terroristi inquadrati. Dal 2000 al 2003, nella seconda grande ondata di omicidi di massa, almeno 28 attentatori suicidi sono partiti dal campo di Jenin, secondo il conteggio delle autorità di sicurezza di Israele. Essi realizzarono almeno 31 attacchi terroristi, per un totale di 124 vittime. Il campo era del tutto fuori controllo.

     

    La “battaglia di Jenin”

     

     Quel periodo terribile si concluse quando il governo israeliano decise di rioccupare provvisoriamente alcune delle città sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, per eliminare i terroristi che vi erano annidati. Fra essi il punto più cospicuo fu proprio il campo profughi di Jenin, che fu riconquistato a duro prezzo: 23 israeliani e 53 palestinesi morirono in quella che fu definita “battaglia di Jenin”. Intorno ad essa si sviluppò una campagna internazionale di diffamazione, che parlò di “stragi”, di “migliaia di morti palestinesi”. La calunnia era lontanissima dai fatti: l’esercito aveva scelto di pagare un prezzo molto alto conquistando le roccaforti terroriste solo con l’uso della fanteria, evitando l’uso di artiglieria ed aviazione per non colpire indiscriminatamente la popolazione. Ma come accade spesso, la calunnia più spudorata ha lasciato tracce nell’ideologia e nella mitologia palestinista in tutto il mondo.

     

    L’evasione

     

    Israele non voleva tenere le città arabe e dopo aver eliminato l’infrastruttura terrorista si ritirò di nuovo. A Jenin però continuarono a formarsi numerosi terroristi, abituati a compiere atti di violenza grandi e piccoli. Malti furono arrestati, altri rimasero in clandestinità. Negli ultimi anni è diventato difficile entrare nel campo profughi non solo per le forze israeliane, che lo fanno comunque quando hanno informazioni su ricercati o su depositi d’armi, ma rischiando perdite com’è accaduto venerdì scorso, ma anche per le forze regolari dell’Autorità Palestinese, anche perché il nucleo terrorista principale del campo appartiene alla “Jihad Islamica”, un gruppo terrorista direttamente controllato dall’Iran. Da Jenin provenivano i sei detenuti della prigione di Gilboa che sono evasi clamorosamente a settembre scorso: cinque di essi appartenevano alla Jihad Islamica e uno, il capo, alle “Brigate di Al Aqsa”, che sono l’ala militare di Al Fatah, il partito del dittatore dell’Autorità Palestinese Muhammed Abbas. Costui, che si chiama Zakaria Zubeid, è l’anello di congiunzione con la vecchia generazione della “battaglia di Jenin”, cui aveva partecipato prima di diventare capo delle “Brigate”, alle dirette dipendenze di Abbas. 

     

    Gli ultimi fatti

     

    Da Jenin e dai dintorni è venuta la maggior parte degli attentatori che hanno insanguinato Israele (19 morti, molti feriti) nell’ultimo mese, per esempio quelli che hanno colpito a Tel Aviv e Bnei Berak. La fabbrica del terrorismo è dunque ancora in funzione ed è necessario andare a prendere chi la anima e la sostiene non solo per assicurarli alla giustizia ma anche per evitare che gli attentati si ripetano. Una di queste difficili missioni è quella che ha preso la vita della giornalista di Al Jazeera, molto probabilmente colpita dal fuoco dei terroristi. E un’altra è costata la vita di Noam Raz. Purtroppo questa vicenda non è conclusa ed è possibile che altro sangue e altri lutti vengano dal furore terrorista che regna a Jenin.

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