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    In Iran si vota, tra minacce e dittatura

    Le elezioni non sono necessariamente sinonimo di democrazia.  Anche
    molti paesi dittatoriali tengono elezioni: l’ha appena fatto la Siria,
    rieleggendo Assad col 96% dei voti, nel 2019 l’ha fatto la Corea del
    Nord,  nel 2018 la Cina e Cuba. Forse solo l’Autorità Palestinese non
    tiene elezioni da quindici anni. Tutto sta naturalmente a come si svolgono le
    elezioni, chi ha diritto di candidarsi e di fare campagna elettorale, quanto
    libero e segreto è il voto, quanto contano poi davvero gli eletti. Nessuna
    meraviglia dunque che domani 60 milioni di iraniani siano chiamati alle urne
    per sostituire il presidente attuale Hassan
    Rouhani
    , ineleggibile in quanto ha già completato due mandati. In realtà
    il presidente iraniano non è affatto il massimo responsabile della politica
    iraniana, anche se formalmente è il capo dell’esecutivo come il presidente
    americano o quello francese. La vera autorità che ha il potere di comandare a
    tutti, compreso il presidente, in Iran è la “guida suprema” che governa a vita.
    Finora, a quarantadue anni dalla rivoluzione islamica, ce n’è state solo due,
    prima per dieci anni, fino alla morte, l’ayatollah Ruhollah Khomeini; dal 1989
    Ali Khamenei. La “guida suprema” è eletta da un’”assemblea degli esperti
    dell’orientamento” di 88 clerici islamici nominati per 8 anni da un “consiglio
    dei guardiani della costituzione” di 16 membri, la metà dei quali è scelta
    direttamente dalla guida suprema e l’altra metà dal capo del potere giudiziario
    che dipende sempre dalla guida suprema. Il “consiglio dei guardiani” ha anche
    il potere di selezionare i candidati alle elezioni. La regola è che “qualsiasi
    cittadino iraniano nato in Iran, purché sia maschio, credente in Dio e
    nell’Islam, e sia sempre stato sempre stato fedele alla Costituzione, alla
    tutela del giurista islamico [cioè, al potere clericale sulla società politica,
    una novità assoluta nella tradizione islamica stabilita da Khomeyni], al leader
    supremo, alla Repubblica islamica, può registrarsi come candidato
    presidenziale.” Poi però ci pensa il “consiglio dei guardiani” a decidere chi
    possa comparire davvero sulle schede elettorali, senza dover nemmeno spiegare
    le ragioni delle sue scelte; a ogni buon conto la “guida suprema” può firmare o
    meno il decreto di nomina, senza il quale l’eletto non diventa presidente. Valeva
    la pena di spiegare per bene questo circuito di nomine tutto clericale,
    maschile e autoreferenziale, da cui il popolo è del tutto escluso, perché esso
    rende assai poco significativa la votazione vera e propria. Le scelte delle
    candidature sono sempre molto unilaterali sul piano politico, escludono i
    democratici, coloro che vorrebbero cambiare il regime anche solo un po’, per
    non parlare delle donne o dei non islamici. Le scelte sono tutte interne e
    funzionali alla continuità del potere degli ayatollah. Quest’anno le
    candidature ammesse sono quattro. Il più giovane è con meno chances si chiama
    Amir Hossein Ghazizadeh Hashemi  ha 50 anni, è stato deputato quattro
    volte ed è definito “conservatore”. Il successivo è Mohsen Rezaei, 66 anni, da
    25 presidente del “c
    onsiglio per il discernimento dell’Interesse del sistema”, un organismo
    consultivo nominato dalla guida suprema. E’ stato per 16 anni comandante in
    capo della milizia del regime
    , le potenti e ricche “guardie rivoluzionarie”. E’
    considerato un membro della “linea dura” della rivoluzione. Segue Abdolnaser
    Hemmati, 64 anni, l’unico che viene definito tecnocrate o moderato, avendo
    presieduto per un paio d’anni la banca nazionale dell’Iran. La sua elezione è
    considerata del tutto improbabile. Il candidato più accreditato è Ebrahim
    Raisi, 64 anni, attualmente capo della corte suprema dell’Iran e in generale
    dell’ordine giudiziario, anche lui esponente della linea dura. E’ considerato
    responsabile della pesantissima repressione del movimento di protesta giovanile
    degli anni scorsi, colui che in genere ha avallato e anzi guidato le migliaia
    di esecuzioni capitali eseguite in Iran ogni anno, le torture, gli
    imprigionamenti arbitrari di chiunque sia sospetto di scarsa adesione al
    regime. Se nessuno otterrò la maggioranza assoluta, vi sarà un secondo turno
    coi due candidati più votati. Come si vede, si tratta di candidati che non
    hanno affatto non solo la possibilità ma nemmeno l’ambizione di cambiare la
    politica iraniana. Tutti vogliono il nucleare, tutti appoggiano l’imperialismo
    iraniano, tutti odiano Israele e l’America, tutti appoggiano l’integralismo
    islamico. Forse solo Hemmati potrebbe presentare al mondo la faccia
    apparentemente tranquillizzante che era l’arma principale di Rouhani, anche se
    poi la sostanza non corrispondeva affatto alla sua affabilità. Gli altri, in
    particolare Raisi e Rezaei sono personaggi particolarmente esposti
    nell’attività repressiva e nell’imperialismo del regime. Durante i dibattiti
    televisivi che si possono vedere filmati e sottotitolati in rete grazie al
    lavoro meritorio dell’istituto MEMRI (https://www.memri.org/tv/iran-presidential-debate-secretary-expediency-council-rezaee-trial-collaboration-america-sanctions-hemmati-destroying-economy-misconduct)
    si sono minacciati l’un l’altro di processi per tradimento, condanne al carcere
    e peggio. Il regime traballante degli ayatollah evidentemente ha più bisogno di
    mano dura nel tenere sottomesso un paese impoverito e inquieto che di sembrare
    civile e democratico. Tanto hanno capito che all’amministrazione Biden e
    all’Unione Europea va bene chiunque si presenti in nome della rivoluzione
    islamica.

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