A
quarant’anni dalla scomparsa del morè Moshè Mario Piazza o Sed, i suoi allievi
si sono riuniti al tempio di Via Balbo, l’oratorio Di Castro, per celebrarne il
ricordo. Dopo la preghiera pomeridiana di Minchà, condotta dal maskil David
Sessa, è iniziato un limmud caratterizzato da affettuosi ricordi personali,
aneddoti e brevi lezioni di Torah. Una serata che i presenti hanno definito
“sentita e doverosa” nei confronti di una figura che ha saputo essere un
maestro per tutti.
“Non ho
potuto conoscerlo, ma posso percepire i valori che impartiva e il suo grande
cuore nelle parole dei suoi allievi – ha sottolineato la presidente della
Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, che ha portato il proprio saluto – Rimane
un esempio e un modello a cui doversi ispirare”.
Il morè
Moshé non è stato solo un punto di riferimento come maestro, ma una persona di
famiglia. Rimasto orfano da bambino, era circondato dall’affetto di un’intera
comunità a cui era profondamente legato. Era un rabbino ascoltato e stimato,
tanto da essere citato in un’edizione contemporanea del Talmud, datata 1980. A
caratterizzare il suo profilo anche un grande amore per Israele, per cui andò a
combattere durante la guerra di indipendenza nel 1948, tornandone ferito.
“Si dice che
quando una persona ha dei figli è come se non morisse mai. Ma nell’ebraismo i
figli non sono solo quelli biologici, perché chi insegna Torah è anche un padre
per i propri allievi, con i quali il morè Moshè aveva un rapporto famigliare –
ha spiegato la morà Anna Arbib Colombo nel suo intervento – Nell’ebraismo i
giusti sono considerati vivi anche se sono morti, e la sua memoria è ancora
viva”.
Tutti lo
ricordano con grande affetto, soprattutto per la sua capacità di empatizzare
col prossimo, favorita da una straordinaria capacità di ascolto. Semi
Pavoncello ricorda che “al tempio c’erano file intere di persone che gli
prestavano attenzione. Veniva e ci dava una scafetta – una pacca – scherzando
con noi. Mi è rimasto impresso che una volta si arrabbiò perché lo chiamarono
professore: lui era un morè, perché insegnava nella scuola e nella vita
quotidiana”.
All’evento
hanno presenziato anche numerosi rabbini attuali, alcuni da remoto altri in
presenza, che hanno avuto il piacere di formarsi con gli insegnamenti del morè
Moshè. Da Rav Alfonso Arbib a Rav Roberto Della Rocca, poi Rav Jacov Di Segni fino
al Rabbino capo Rav Riccardo Di Segni, per il quale morè Moshè è stato “un maestro
così importante da non poter essere dimenticato. Ricordo il momento triste del
suo funerale, c’era una partecipazione di folla incredibile, i suoi allievi
piangevano sinceramente. Lo ricordo quando, la mattina presto, lo vedevo
camminare su lungotevere in direzione del tempio, mentre fumava il sigaro”. Il suo retaggio, religioso, culturale ma soprattutto umano continuerà ad essere il
monito e l’esempio per le generazioni future.