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    Shoah: i ricordi di Piero Terracina, "i miei incontri con la morte"

    “Mi raccomando ragazzi: qualsiasi cosa accada, siate uomini e non perdete mai la dignita’ “. Queste parole furono pronunciate dal papa’ di Piero Terracina, 89enne sopravvissuto di Auschwitz, quando si trovo’ rinchiuso con tutta la famiglia nel carcere di Regina Coeli. L’arresto era avvenuto la sera del 7 aprile del 1944, a causa della denuncia di un italiano che collaborava con le Ss e che, in cambio, ebbe un compenso di 5000 lire. Furono presi in sette (la nonna era morta poco prima dell’arresto) mentre stavano celebrando la Pasqua ebraica: due ufficiali armati come per una azione di guerra, entrarono e diedero 20 minuti di tempo alla famiglia per raccogliere qualche effetto personale. Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz scomparso oggi a Roma, raccontava ai giovani i suoi terribili ricordi, e spiegava che anche quando si e’ vissuti all’inferno si puo’ mantenere, nonostante la paura, la fame, il freddo, le umiliazioni, la morte che ti passa accanto ogni minuto. Intervistato dall’AGI il 16 aprile del 2018, parlava di quella volta in cui un ufficiale tedesco uccise senza motivo un amico che gli stava accanto: “Fu il mio primo incontro con la morte” diceva Terracina, incontrato assieme ai ragazzi accorsi a casa sua in occasione “Zikaron Ba Salon”, la memoria nel salotto, iniziativa nata nel 2010 in Israelee organizzata a Roma dal Centro di Cultura Ebraica. “Tra le tante cose che non potevamo fare – era uno dei ricordi della sua vita in Italia dopo le leggi razziali – c’era il divieto di avvicinarsi alle coste. E quindi non potevamo andare al mare. Ma perche’, che avevamo fatto di male? Nemmeno un bagno al mare. Ma noi trovammo il modo di andare a Fregene. In una spiaggia privata. E passavamo giornate belle li’, nonostante tutto”. 

    Prima di sprofondare nell’abisso di Auschwitz, “uno dei momenti piu’ dolorosi – diceva – fu quando venni cacciato da scuola. Ero ebreoe per le leggi razziali non potevo piu’ frequentare una scuola pubblica. Ma io con i miei compagni stavo bene, anche la maestra mi voleva bene. Ma dovette dirmi di uscire dalla classe. Avevo meno di 10 anni, dovevo fare la quarta. Quel giorno tornai a casa da solo, piangendo, ero disperato. Ma che avevo fatto di male io? A casa mia ci veniva spiegato che lo studio era importante, mamma ci seguiva molto nei compiti. Ma io dovevo andare via da scuola. Si puo’ essere disperati a dieci anni? Si’, si puo’ essere”. Continuo’ gli studi in una scuola ebraica e ricordava i nuovi amici che lo accolsero, lo protessero, il preside non ebreo, “mandato a controllare cosa facessero i nemici della patria” che li esortava a continuare a studiare e che erano come tutti gli altri ragazzi, non una razza inferiore. Terracina raccontava delle tante occupazioni che svolse il padre, cacciato dal suo posto di lavoro e che si era dovuto adattare. La famiglia originaria era composta da otto persone e lui era l’unico ad esse tornato dall’inferno: “Si’ ragazzi, io sono stato all’inferno” diceva commuovendosi. “La solidarieta’ – ripeteva Terracina – e’ fondamentale in certe situazioni di disagio. e’ uno dei piu’ grandi valori della societa’. Come si fa a vivere senza la solidarieta’? Anche oggi, come allora, e’ fondamentale”. E fra gli esempi, citava un certo Franco Baldini che gestiva un campetto di calcio. Questo signore chiudeva un occhio e lasciava lui e i suoi amici giocare a pallone perche’ agli ebreiera anche vietato giocare a pallone mentre, invece, quasi tutti i ragazzini adorano improvvisare partitelle. 

    E ancora, ricordava la donna che vendeva castagne sul ponte in centro e che sapendo che gli ebreidovevano dare subito 50 chili d’oro per non essere deportati, si sfilo’ gli orecchini che aveva per dare un contributo. O di aver perduto la suola di una scarpa nel campo di concentramento di Fossoli prima di salire sul treno che lo avrebbe condotto all’inferno. Gli venne in soccorso Mario che dalla baracca gli porto’ un altro paio di scarpe per fortuna del numero giusto e che gli permettono di camminare con meno problemi. A quel Mario, Terracina era rimasto grato. Poi c’e’ la vita durissima ad Auschwitz, la mamma che lo abbraccia insieme ai fratelli e dice loro che non li rivedra’ piu’. Piero alla fine di tutto restera’ solo, della sua famiglia non ci sara’ piu’ nessuno. Quando verra’ liberato cerchera’ i suoi ma sara’ tutto inutile. Era entrato all’ inferno dicendo che aveva 18 anni: per salvarsi menti’ sull’eta’ perche’ se ne avesse dichiarati 15, sarebbe finito alle camere a gas. Piero in quell’inferno lavorava, “la vita era tremenda e vi risparmio tanti particolari – diceva con la voce rotta dall’emozione – ho visto l’impossibile, vi assicuro”. Poi il 27 gennaio, i pochi sopravvissuti che eravamo rimasti, circa 7000, furono liberati dall’esercito sovietico. “Erano molti – raccontava Terracina – coloro che non erano piu’ in grado di reggersi sulle loro gambe e si trascinavano sul terreno gelato facendo forza sulle ginocchia e sui gomiti. Molti furono quelli che morirono nei giorni successivi alla liberazione. Non ci fu gioia al momento della liberazione. Ricordo molto bene quel giorno. Era la tarda mattinata, aprii la porta della baracca per andare a prendere un po’ di neve in qualche parte del lager che non fosse troppo contaminata dai corpi che giacevano sul terreno, per ricavarne un po’ d’acqua da poter bere. Altra acqua non c’era. Vidi un soldato completamente ricoperto di bianco, era solo ed aveva un mitra. Si volto’ verso di me e mi fece cenno con la mano di rientrare. Comunicai ai miei compagni che i soldati dell’esercito sovietico erano entrati nel campo ed eravamo liberi. Non ci fu nessuna reazione, solo silenzio. Solo dopo qualche ora vidi qualcuno che piangeva ed altri che pregavano. Nessuno poteva gioire sapendo che molti dei nostri congiunti non li avremmo piu’ visti. Sapevo che non avrei piu’ trovato i miei genitori, il nonno e lo zio che in una selezione era stato scelto per la morte nelle camere a gas. Speravo di poter ritrovare mia sorella, i miei fratelli o qualcuno di loro, speranza risultata vana”. (AGI) 

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