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    Rav Dov Izhak Freilich, il rabbino che aiutò la ricostruzione della Comunità ebraica di Roma

    “Il giorno in cui venne liberato da Bergen-Belsen era un venerdì, mancava poco all’inizio di Shabbat ed erano quattro anni che mio nonno non poteva celebrarlo”. Si lascia tradire dall’emozione Elie Lowy, nipote di Rav Dov Izhak Freilich, mentre racconta il momento della riconquista della libertà e del momento in cui suo nonno ha potuto ricominciare a vivere da ebreo.

     

    Siamo andati a New York, e qui dal figlio, Avi Freilich, e dal nipote Elie, per ascoltare la storia di questo rabbino che si intreccia con quella della comunità ebraica di Roma.

     

    Rav Freilich nacque a Kozienice, una delle città chassidiche della Polonia. All’età di 12 anni si trasferì con la famiglia a Varsavia dove studiò al collegio rabbinico di Rav Kalonymus Kalman Shapira, noto per essere stato rabbino di una sinagoga nel ghetto di Varsavia. Il legame tra i due era fortissimo come ci racconta Elie: “Mio nonno andava spesso a casa di Rav Shapira. Il loro era un rapporto speciale. Ad esempio era l’unico a poter assaggiare prima il cibo dello Shabbat e mi raccontava sempre che una notte sentì spostarsi il letto. Rav Shapira lo faceva perché la luna non illuminasse il suo viso. Secondo quanto dice la Torà la luna non deve brillare su nessun volto. Rav Shapira era molto protettivo e voleva che la Torà fosse comprensibile a tutti, per questo spesso usava un linguaggio poetico. Secondo mio nonno era uno dei rabbini più moderni, diceva che non ci sono bambini cattivi, ma bambini che vanno indirizzati. Ognuno va orientato secondo il suo talento”. Rav Shapira era un punto di riferimento, una guida spirituale e di vita.

     

    Proprio grazie a questi insegnamenti Rav Freilich diventò rabbino all’età di 17 anni. Ha vissuto e studiato a Varsavia fino a quando non venne deportato in diversi campi di lavoro e di sterminio.

     

    Si trovava ad Auschwitz quando, sulla linea che lo avrebbe portato alla morte, miracolosamente le SS dissero che avevano bisogno di fabbri e, benché lui non conoscesse nulla di quel mestiere, si offrì volontario riuscendo a salvarsi. Venne spostato a Mauthausen e poi, verso la fine, a Bergen-Belsen, dove fu liberato dalla brigata Jewish – British nel 1945, un venerdì di maggio.

     

    I soldati chiesero se qualcuno conosceva l’inglese, nessuno rispose, poi chiesero se qualcuno sapeva l’ebraico, e lui si fece avanti. I soldati si offrirono di portarlo al campo militare per farlo lavare, dargli dei vestiti puliti e nutrirlo.

     

    “Per molti anni non ho rispettato lo Shabbat, non ho potuto farlo perché dovevo sopravvivere, lavorare per poter vivere, ma adesso sono libero e posso rispettarlo. Aspetterò fino al tramonto per poter salire su quell’auto” Elie, molto emozionato, ci riporta le parole del nonno nel giorno della liberazione.

     

    Un soldato rimase molto colpito da quelle parole con cui il Rabbino descriveva tutta la drammaticità di ciò che aveva vissuto, ma anche il suo grande amore per l’ebraismo, tanto che tornò a riprenderlo la domenica successiva.

     

    Fu lo stesso soldato che gli chiese quali fossero i suoi piani: “Mio padre voleva andare in Israele. Il soldato gli disse che avrebbe provato ad organizzare il suo trasferimento a Salisburgo dove stavano organizzando una Alyah illegale. Non riuscì ad arrivare in Austria. Trasferirono molti ebrei con dei treni in Italia così decise di andare a Roma. – ci dice il figlio Avi – Riuscì a prendere un treno, malgrado non avesse un soldo in tasca. Arrivato a Roma rimase sorpreso nel vedere che c’era molta gente alla stazione. Quelle persone erano venute a conoscenza che su quei treni tornavano gli ebrei sopravvissuti ai campi”. E infatti ognuno aspettava il ritorno di un proprio caro di cui non aveva più notizie.

    Quando Rav Freilich arrivò a Roma non conosceva nessuno, non conosceva la città, non aveva nulla con sè, quindi decise di avvicinare una persona, le uniche parole con cui riuscì a farsi capire furono “Sinagoga! Sinagoga!”. Questi, rendendosi conto che era un ebreo straniero, lo portò in macchina fino al Tempio Maggiore dove venne indirizzato verso il DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei).

     

    Rav Freilich sperò di trovare qualcuno che potesse comunicare con lui magari in Yiddish o in ebraico e voleva incontrare il Rabbino Capo di Roma, perché come ci racconta Avi “era tradizione che il primo saluto fosse per il Rabbino Capo del luogo”, ma la Capitale non ne aveva ancora uno perché l’ultimo aveva deciso di convertirsi, successivamente venne nominato Rav David Prato con cui strinse un forte legame.

     

    Al DELASEM leggendo i moduli che aveva compilato capirono che aveva studiato alla yeshivah di Varsavia, che conosceva l’Yiddish, quindi gli chiesero di rimanere, a Roma ha avuto diversi incarichi, soprattutto quello di essere il punto di riferimento di tutti gli ebrei che non erano italiani.

     

    Subito dopo la guerra, passarono per la Capitale tra i 25000 e i 30000 ebrei, mentre l’esercito si preoccupava di procurare loro una sistemazione e del cibo, Rav Freilich li aiutava con le loro necessità religiose, come ad esempio celebrare matrimoni, come documentano i registri conservati nell’Archivio storico della Comunità ebraica di Roma.

     

    “Mio padre doveva assicurarsi che le persone che sposava fossero davvero ebree e che potessero sposarsi. Ad esempio che non fossero parenti tra loro, o che fossero davvero celibi. Non era un lavoro facile perché non aveva molte persone a cui chiedere, so che scriveva spesso al rabbino David Kahana di Gerusalemme per i casi che non erano chiari.  – ci racconta Avi – Venne assegnato al Tempio di Via Balbo, ed era molto orgoglioso di aver contribuito a riaprirlo dopo la guerra e strinse una fortissima amicizia con Rav Prato, colui che si attivò per riorganizzare la comunità”.

     

    Il collegio rabbinico non funzionava a quel tempo e gli venne chiesto di ripristinarlo, così riaprì la Yeshivah, cominciò anche ad insegnare e a fare lezioni di kasherut.

     

    Rav Freilich organizzò dei colloqui con degli insegnanti di Milano per l’educazione ebraica di alcuni bambini orfani, e rimase colpito da una donna in particolare. Le chiese di diventare la sua segretaria personale una volta tornato a Roma. Quella donna diventò sua moglie tre mesi dopo e il matrimonio, come mostrano le foto, venne celebrato al Tempio Maggiore di Roma.

    Proprio grazie a sua moglie decise di trasferirsi. “Mia nonna disse che il futuro degli ebrei era in Israele o negli Stati Uniti, così decisero di partire grazie ad un permesso che gli era stato procurato da un rabbino di New York” ci dice Elie.

     

    Rav Prato dapprima non gradì la novità: “Si arrabbiò molto. Mio padre mi raccontava sempre del giorno della sua partenza. Rav Prato gli disse che era giunta l’ora. Non si sono mai perduti di vista, sono rimasti sempre ottimi amici fino alla morte di Prato pochi anni dopo”.

     

    Rav Freilich è rimasto comunque molto legato a Roma, anche dopo la partenza, sentiva che quella città e gli ebrei romani gli avevano dato una nuova prospettiva di vita, lo avevano accolto e non ha mai dimenticato quanto avevano fatto per lui. Era la persona giusta, in quel luogo, in quel periodo: conosceva l’ebraico, lo insegnava così come glielo aveva insegnato Rav Shapira, sapeva comunicare ed essere vicino alle persone sia che fossero osservanti sia che non lo fossero. Contribuì alla rinascita della Comunità ebraica di Roma.

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