Cinque anni dopo la sua scomparsa, Ettore, il nipote di Piero Terracina, sopravvissuto alla Shoah, ha organizzato un commovente limud al Centro Ebraico Pitigliani per ricordare la straordinaria figura di suo zio. Un ambiente raccolto, dedicato all’ascolto e alla trasmissione della fierezza e dell’impegno di un uomo che ha trasformato la propria sofferenza in un faro di speranza. Tutti, attraverso la condivisione di affettuosi ricordi o semplicemente con silenzio e introspezione, hanno reso omaggio alla sua eredità e al messaggio di speranza lasciato.
Miriam Haiun, moderatrice dell’evento, assieme ai suoi familiari e amici, racconta qualcosa di più. Nato a Roma, quarto e ultimo figlio della famiglia Terracina, Piero crebbe in un contesto familiare ricco di profondi valori morali. Suo padre era solito leggere il giornale accanto a lui, trasformando quel momento quotidiano in un’opportunità per trasmettere insegnamenti significativi, come l’importanza di preservare la dignità in ogni circostanza, indipendentemente dalle difficoltà. Questo principio, insieme ad altri, contribuì a forgiare in lui un carattere saldo e consapevole.
Dopo aver vissuto le drammatiche esperienze di Auschwitz-Birkenau, che gli hanno strappato tutto ciò che aveva di più caro, Piero non solo mantenne intatta la sua fierezza interiore, ma seppe trasformare il dolore in una straordinaria forza. Scelse di raccontare gli orrori vissuti, rompendo il silenzio e diventando emblema di resilienza e un punto di riferimento per la memoria storica. Amava rivolgersi ai giovani, con l’intento di rendere i terribili ricordi una memoria condivisa, capace di attraversare le generazioni e insegnare a costruire un futuro migliore. Credeva fermamente che la memoria non fosse solo un legame con il passato, ma un ponte per comprendere il presente e orientare le scelte future, affinché tragedie simili non si ripetessero mai più. Sosteneva che “la memoria fosse un filo che lega il passato e il presente, proiettandosi nel futuro e condizionandolo”, ha ricordato Lello DellʼAriccia, testimone del rastrellamento del 16 ottobre ’43.
Durante l’evento, anche l’insegnante Hora Aboav ha condiviso un’intima riflessione che ha saputo cogliere l’essenza della vita e della memoria in Piero. “Una piccola parola, ‘Ken’, sì: anni fa ho scoperto che ken viene da Kun, la stessa radice di Kohen, il sacerdozio. Nahon è ciò che è corretto. Pensando a Piero, era una parola che metteva in atto giornalmente, dicendo sì alla vita. Soprattutto quando gli fu chiesto se credesse ancora nell’uomo. In questo momento è una parola a me spontanea, che gli attribuisco, era un uomo di cuore, un cuore che sapeva comunicare, pronto ad esporsi in funzione della vita”. Queste parole risuonano come un potente ricordo di ciò che Piero rappresentava non solo un testimone della memoria, ma un uomo di profonda dignità e coraggio.
Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha ricordato un episodio di audace influenza da parte di Piero: “Durante un concerto di musiche ebraiche all’edificio Valdese, tutti seduti udimmo una melodia nota, l’Hatikwa, l’attuale inno dello Stato d’Israele. Piero, senza esitare, si alzò e tutti lo seguirono. Così è ancora vivo nella mia mente”. Un uomo forte, che dopo aver scelto di raccontare, coinvolse anche l’amico, da lui definito “fratello”, Sami Modiano. L’incontro casuale nel campo di concentramento, tra il dolore e la sofferenza, diede vita a un legame profondo, ricco di scambi e condivisioni. “Dopo il 27 gennaio 1945, perdemmo completamente i contatti. Finché, durante una vacanza a Roma, accesi la televisione e lo riconobbi. Cercai subito il suo contatto, e da lì iniziò questo viaggio insieme,” racconta Sami. Un viaggio iniziato da pochi, che con il tempo si è ancor più ridotto.
È ora compito di ognuno di noi continuare, sulle orme del testimone instancabile della Shoah, come definito da Mattarella il giorno della sua scomparsa, affinché ciò che è stato non accada mai più.