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    ROMA EBRAICA

    Non staremo in silenzio

    “Com’è potuto succedere?”. Questa è la domanda che continuo, quasi ossessivamente, a pormi dal 7 ottobre, e non riesco ancora a darmi una risposta. Anche perché la domanda successiva, che ci siamo posti dopo appena qualche giorno, è ancora più assurda: “Com’è possibile che il 7 ottobre sia stato rimosso?”. È l’assurdità di quello a cui stiamo assistendo in Israele e nel mondo – il risorgere dell’antisemitismo e l’indifferenza di molti giovani, di alcune Università e delle organizzazioni internazionali – che ci riporta, con un salto mortale, indietro di 75 anni, all’inferno della Shoah.
    Nella mia testa vortica incessantemente una frase di Liliana Segre, che ha dedicato la vita a coltivare la Memoria e oggi dice: “Mi sembra di avere vissuto invano”. È il segno di una tristezza infinita.
    Come posso trovare le parole per ricordare, oggi, la Shoah? A lungo ci si è chiesti se i tedeschi fossero a conoscenza dei campi di sterminio. I nostri amati e compianti Alberto Mieli e Shlomo Venezia raccontavano che i nazisti facevano passare la colonna di cinque-seimila ebrei di Auschwitz nella “marcia della morte” lontano dalle città: preferivano i sentieri dove c’erano solo fattorie isolate, perché l’orrore andava tenuto nascosto e i nazisti, perfino i nazisti, ne avevano una parvenza di vergogna. O paura. E ancora oggi combattiamo le nefandezze morali del negazionismo.
    Il 7 ottobre, il pogrom si è consumato dentro Israele. Alla luce del sole. E i nazisti hanno ripreso attraverso le loro GoPro le esecuzioni, gli stupri, le mutilazioni, le torture… La minuziosa caccia all’ebreo. Nessuno può dire di non sapere. Decine e decine di sorelle e fratelli sono ancora ostaggio dei terroristi, eppure molti chiedono a Israele di fermarsi. Ma non chiedono a Hamas di liberare gli ostaggi. Nelle piazze di tutto il mondo, anche in Europa, abbiamo riascoltato frasi di cui conosciamo bene il significato: come “Edbakh el Yahud!”, sono le frasi che ritmavano durante i pogrom subiti in Libia e poi raccontati con orrore dai nostri genitori; oppure “Palestina libera dal fiume al mare!”.
    A Israele si chiede una perfezione assoluta e impossibile, che neppure può essere definita perfezione: smettere di difendersi. Anche questa pretesa è antisemitismo. Noi non siamo perfetti. Noi siamo vulnerabili. E noi siamo vivi e vogliamo continuare a vivere.
    La Comunità ebraica di Roma è una delle più antiche al mondo e di gran lunga la più numerosa d’Italia. Noi siamo orgogliosamente italiani, siamo grati alle istituzioni e alle forze dell’ordine che ci hanno immediatamente dato prova della loro vicinanza e ci sentiamo sicuri per quanto è possibile dopo il 9 ottobre 1982, quando un commando palestinese, in circostanze oscure su cui oggi si è tornato ad indagare, assaltò il Tempio e lasciò in terra un bimbo di 2 anni, Stefano Gaj Taché, e molti feriti anche gravi. Abbiamo rivissuto l’oltraggio alle pietre d’inciampo, che ricordano i nostri cari strappati alle case, trascinati nei campi e mai tornati.
    Noi non possiamo chiudere gli occhi davanti al 7 ottobre, e davanti a tutto quello che ne è seguito. La banalità del male scorre nelle troppe parole che abbiamo ascoltato, nelle piazze e in certi media. Noi non ci limitiamo più a ricordare. Noi riviviamo l’incomprensibile disumanità della Shoah… e del dopo-Shoah. La riviviamo nei video che i nazisti di Hamas hanno diffuso sui social. Scriveva Hanna Arendt nel 1946: “Morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo. È in questa eguaglianza mostruosa, senza fraternità né umanità… che si scorge, come riflessa in uno specchio, l’immagine dell’Inferno”.
    Le stesse parole possono descrivere ciò che è avvenuto nei Kibbutz e al Nova Music Festival il 7 ottobre 2023. E poi nel buio dei tunnel a Gaza. “Può accadere, e dappertutto”, ammoniva Primo Levi nelle conclusioni de “I sommersi e i salvati”.
    Ricordare la Shoah, oggi, significa riaffermare con forza l’appartenenza al popolo di Israele, l’incondizionata vicinanza a Israele, il nostro amore per i fratelli e le sorelle ovunque nel mondo, la nostra attesa che tornino a casa tutti gli ostaggi, il nostro supporto ai giovani ebrei che difendono a rischio della loro vita la presenza e l’identità ebraiche.
    Noi abbiamo il dovere di ricordare, e di alzare le nostre voci di ebrei italiani affinché la società civile riconosca l’assurdità del Male.
    Noi non staremo in silenzio. Noi vogliamo vivere. E questo sarà il nostro modo di ricordare.

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