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    L’impatto della Liberazione sulla vita degli ebrei di Roma. Dal dopoguerra al “miracolo economico” (1945-1965)

    Roma aveva era già stata liberata da quasi un anno (4 giugno 1944) e la comunità stava faticosamente e dolorosamente riprendendosi dalle conseguenze delle leggi del 1938, della guerra, della fame, delle deportazioni e degli eccidi. Inoltre, di lì a poco subì anche la conversione del suo rabbino capo. Nonostante tutti questi fattori che avrebbero messo a dura prova l’identità di qualsiasi gruppo culturale o confessionale, la compagine ebraica romana riuscì a risollevarsi in modo straordinario. Al momento della Liberazione del Nord d’Italia molti reduci dai campi di sterminio e di concentramento stavano drammaticamente cercando di tornare a casa mentre alcuni erano ancora reclusi (l’ultimo campo liberato fu Stuttof, il 9 maggio 1945). Molto lungo fu il percorso dell’elaborazione della tragedia. Pochi parlarono nella società dell’epoca delle responsabilità di quanto accaduto, neppure i sopravvissuti erano propensi a raccontare le loro vicende, mentre la maggioranza degli italiani era intenta ad autoassolversi e molti a passare rapidamente da fascisti ad antifascisti. Le amnistie che i governi italiani vollero dal 1946 in poi agevolarono l’oblio. Un altro tema poco trattato riguarda il numero di profughi che arrivarono a Roma molti di origine del Centro e dell’’Est Europa e che vennero ad ingrossare le fila degli ebrei ashkenaziti della città. Interessante segnalare, a questo proposito, che l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma conserva la registrazione di molti matrimoni di quei reduci che una volta in città vollero sposarsi nei nostri bathè hakeneseth.

     

    Il  secondo dopoguerra fu drammatico dal punto di vista materiale e psicologico e il Rabbino Capo David Prato tornò alla guida della comunità (1945-1951) in una fase complessa di riconfigurazione e di recupero delle proprie radici dopo un lungo periodo di laicizzazione di assimilazione iniziato con la fine dell’Era del ghetto (1555-1870). Fu riaperta la scuola ebraica e furono incrementati gli aiuti alle famiglie in difficoltà grazia all’opera dell’American Jewish Joint Distribution Committee. Il rabbino Elio Toaff prese le redini della comunità, dopo la dipartita di Rav Prato e per un lungo periodo (1951-2001), continuando l’opera di rafforzamento dell’identità ebraica, coadiuvato dalle menti migliori della comunità, attraverso l’istruzione di base e la cultura; infatti, tra l’altro, nel 1960 fu inaugurato il Museo Ebraico di Roma. Il numero di ebrei che dopo la liberazione effettuarono l’Aliyà fu ridotto anche se l’apporto degli ebrei italiani alla fondazione dello Stato d’Israele e la difesa dei suoi confini fu qualificato. Non va dimenticato che fino al 1948 andare nell’allora Palestina mandataria era molto complesso sia per i contingentamenti previsti dagli inglesi, sia per le difficili condizioni di vita rispetto anche alla situazione di Roma, dove, peraltro, circa l’80% degli ebrei scampò alla deportazione e non subì le violenze che affrontarono i reduci in altri Paesi come la Polonia anche dopo la fine del conflitto. Tuttavia, la fondazione dello Stato ebraico (1948) suscitò grandi entusiasmi, come si evince dalle parole di Rav Vittorio della Rocca (z.l.) che in una intervista rilasciata per l’Archivio Storico della CER disse: “È stato un momento bellissimo, meraviglioso, con giornate di grandissimo entusiasmo; il ‘ghetto’ sembrava davvero un angolo di Gerusalemme, c’era gente che aveva smesso di lavorare per ascoltare alla radio la decisione dell’ONU, preghiere a non finire. Ricordo Prato vestito da rabbino, con il suo pettorale, andare per la prima volta all’Arco di Tito; rammento la presenza del Console d’Israele a Roma e poi tantissima gente. Ricordo la gioia del Rabbino capo ed i suoi discorsi entusiasti che infiammavano gli animi”. Pertanto, Nonostante l’incombere della “guerra fredda” furono, in generale, anni di grandi speranze con il regime fascista sconfitto, la vittoria dei repubblicani al referendum (1946), l’entrata dell’Italia nel Piano Marshall (1947) e nel Patto Atlantico (1949). Questi fenomeni trascinarono gli italiani nei moderni sistemi democratici e determinarono un progressivo recupero economico e un “take off” industriale. Di questi passaggi si avvantaggiarono anche gli ebrei romani che seppero inserirsi nuovamente nell’economia cittadina con risultati notevoli anche in termini di mobilità sociale. Anche i costumi di molti membri della comunità stavano cambiando e ancora Rav Della Rocca ricordava: “Le nuove coppie di sposi cominciarono a non abitare in ‘ghetto’; quando i genitori li vedevano andare ad abitare a Monteverde o in Prati, dicevano: ‘Hanno passato ponte’”. Tuttavia, rimaneva una società fortemente stratificata. “Allora non c’erano tutte le sinagoghe che ci sono oggi, c’era il Tempio Maggiore, il Tempio Spagnolo e quello di via Balbo che era frequentato dalla élite, dall’intellighenzia, avvocati, ingegneri. Il Tempio Maggiore era stato, invece, sempre frequentato dalla nuova media borghesia, ed il Tempio Spagnolo dal proletariato”. Contestualmente ““Nacquero dei movimenti giovanili, quali il Bené Akiva e l’Hashomer Hatzair”. Non pochi dei loro iscritti fecero l’Aliyà o, restando in Italia, si distinguono ancora oggi per la loro incessante attività per Israele e l’ebraismo”. Tutto questo produsse un’apparente contraddizione: il recupero delle radici ebraiche e la modernizzazione. Prima della guerra che si sentiva “moderno” abbandonava le tradizioni ebraiche e l’osservanza delle mitzvot era diffusa tra le classi popolari. Con la riapertura della scuola ebraica e la nascita dei movimenti giovanili, la tendenza iniziò a invertirsi e gli effetti di tale processo sono ancora marcati oggi.

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