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    Il dovere di ricordare il 9 ottobre 1982

    Ieri sera si è tenuta la “prima” per la Comunità e per le autorità del docu-film “Era un giorno di festa”, il racconto corale dell’attentato del 9 ottobre 1982 realizzato con la viva voce delle vittime del tragico evento.


    Poco prima della proiezione tra gli autori del progetto il nervosismo era palpabile. Non tanto perché si era al culmine di un lungo anno di lavoro, ma perché mai come per un lavoro auto-prodotto, che tocca corde emotive delicate e si intreccia con la personale elaborazione di lutti e ricordi, sentivamo che i veri giudici dell’opera fossero loro: le famiglie dei feriti e dei testimoni.


    Non è stato facile selezionare cosa inserire degli oltre 50 ore di girato, con storie commoventi e riflessioni ai nostri occhi tutte interessanti. E il frutto del nostro lavoro, un collage delle loro testimonianze, per tirare fuori una narrazione coerente, coinvolgente e storicamente accurata, rappresentava una grande responsabilità.


    Quando si sono accese le luci però, e abbiamo visto gli occhi luccicanti, i volti sereni nonostante la drammaticità delle immagini, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Lo abbiamo fatto per loro, come forma di ringraziamento per essersi aperti – qualcuno per la prima volta – raccontando la propria dolorosa storia e per assicurare la memoria degli eventi alle generazioni a venire.


    Ed è proprio ai giovani che si è pensato, confezionando il film. Ai nostri giovani, che non devono dare per scontato che la libertà di cui godiamo oggi, insieme ad una stampa per lo più decente nei confronti dell’ebraismo, al rapporto solido con istituzioni e forze dell’ordine e alla percezione di uno Stato d’Israele forte e autonomo, sia una condizione automatica.


    Ai giovani abbiamo dedicato la parte iniziale, la ricostruzione del clima d’odio, che proprio al contrario di quanto viviamo oggi, ci si era allora rassegnati a vivere come ineluttabile. Per loro è giusto sapere – e per gli adulti ricordare – che c’è stato un tempo nel quale i media ci erano tutti ostili, un tempo in cui gli ebrei italiani soffrivano, e in cui si cercava addirittura di venire a patti con chi ci accusava facendo osceni parallelismi tra i protagonisti del conflitto in Medioriente e cittadini italiani ebrei, ai quali si chiedeva di “discolparsi”. Sì, “solo” 40 anni fa, ci si chiedeva di prendere le distanze da Israele, e il nostro amore per la terra dei nostri padri era visto come una sorta di peccato originale. Questo, tra le altre cose, racconta “Era un giorno di festa”, il prodotto del lavoro di un gruppo di amici che voglio citare: Micol Anticoli, Daniel Di Porto, Joseph Di Porto, Ariela Piattelli, Gadiel Tachè, Angelo Vivanti che, assieme al sottoscritto, si sono stretti intorno a Gady e alla sua famiglia e hanno riportato sui luoghi dell’attentato gran parte degli inconsapevoli spettatori per ascoltare le loro testimonianze. Un lavoro indispensabile di ricostruzione con una visione elaborata a 40 anni dalla strage, cercando di non far sconti a responsabili e protagonisti politici di quel clima nel quale maturò l’attacco alla sinagoga di Roma. Non una ricostruzione giornalistica, né la pretesa di un documentario. Con l’umiltà di chi sa che quanto rappresentato sia solo la punta dell’iceberg di decine di altre storie, consapevoli delle omissioni inevitabili, ma con la certezza che l’attentato fu una deflagrazione non solo fisica ma l’evento luttuoso che marcò il cambiamento dell’identità di un’intera comunità e della sua leadership. Questo è quello che abbiamo voluto rappresentare, non solo dolore e disperazione, ma il momento nel quale si decise nuovamente e una volta per tutte, come ebrei, di “essere noi stessi per convinzione e scelta e non per concessione degli altri”.


    Una tappa obbligata nella circolarità degli eventi che sempre ha contraddistinto la storia del popolo ebraico, fatta di crescita, persecuzione, rischio di assimilazione e riscatto. Di momenti in cui ci illudiamo di poter venire a patti con il potere (quello dei papi, quello figlio del Risorgimento), e puntualmente, dopo una tranquillità e vagheggiamenti che tutta vada bene, dalla partecipazione alla vita pubblica, improvvisamente ci fa ripiombare nella disillusione e nel dolore.


    “Era un giorno di festa” ci racconta come nel 1982 per l’ennesima volta fummo abbandonati, traditi e lasciati soli. Ma che al tempo stesso ci ricorda che non è vero che “all’esterno” tutti ci odino. Ma che mentre inevitabilmente pensiamo al meglio, è comunque nostro dovere, memori del dolore che ciascuno di noi porta inciso nella carne, prepararsi sempre al peggio.


    Come autori, la lezione che in questo lungo anno di ricostruzione abbiamo portato a casa è prima di tutto quella di cercare di crescere figli e nipoti migliori di quanto non siamo stati noi. Migliori religiosamente, spiritualmente, umanamente, culturalmente. Perché nessuno è mai preparato davvero quando succede un evento improvviso e devastante e nessuno sa quello che il futuro ci può riservare. Ma la partecipazione, il volontariato, la sicurezza e il presidio delle nostre istituzioni sono imprescindibili, così come  la spinta all’azione e alla reattività che animò i nostri leader comunitari e un pugno di giovani correligionari all’indomani dell’attentato.


    Eventi devastanti, se adeguatamente elaborati, possono essere un fondamentale richiamo all’unità della nostra comunità. Il 9 ottobre non fu certo causato dalla disgregazione e dall’allontanamento dai valori e della compattezza delle posizioni su Israele. Ma è indubbio che questa contribuì alla difficoltà di denunciare quel clima d’odio sulla stampa e nella politica nel quale maturò l’attentato (con i suoi legami) e lo spaesamento nell’offrie una risposta immediata ad una comunità che era disorientata.


    Per usare le parole di uno degli intervistati, come ebrei, pur avendo il sacrosanto diritto di dimenticare – perché non possiamo vivere solo di eventi luttuosi ma è nostro dovere celebrare ogni giorno la vita – abbiamo anche l’altrettanto fondamentale dovere di ricordare, tramandando il ricordo di ciò che è stato alle prossime generazioni, dimostrando di averne fatto tesoro nel sacro rispetto della memoria delle vittime, dei feriti e delle loro famiglie. 

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