di Donato Grosser
Nel giorno di Kippur (12 ottobre 1872) alla Bevis Marks Synagogue di Londra, R. Beniamino Artom (Asti, 1843-1879, Londra) rabbino della comunità sefardita della città, esordì dicendo che i nostri maestri rivestirono i loro insegnamenti con parabole e metafore. Qui di seguito riassumiamo in piccola parte il contenuto della sua derashà.
In una di queste parabole i maestri descrissero l’Onnipotente come un giudice seduto sul suo trono adamantino con il pubblico ministero alla sua destra e tre registri di fronte a sé. Egli li apre e, avendo visto il comportamento di tutti gli esseri umani con un solo sguardo e deciso il verdetto di ognuno di essi, scrive in un registro i nomi di coloro che sono assolutamente malvagi e destinati a morire. Nel secondo registro Egli scrive i nomi di coloro che sono assolutamente virtuosi e destinata a vivere. Nel terzo registro, i nomi di coloro che sono ancora sull’orlo dell’abisso e con una penitenza sincera possono scampare la mala sorte della miseria e della morte.
R. Yehudà Moscato (Osimo, 1530-1590, Mantova) in Nefutzòt Yehudà (derùsh 41) scrive che assolutamente giusti sono coloro che hanno molti meriti. Essi vengono registrati subito per la vita e questo significa che nell’anno entrante avranno successo nelle loro cose e di conseguenza avranno una vita felice. Per questo i maestri hanno detto che i giusti sono chiamati “vivi” anche dopo la morte. Il contrario avverrà per i malvagi, cioè coloro che hanno un’abbondanza di peccati, che vivranno una vita d’inferno e per questo i malvagi anche in vita sono chiamati “morti”.
R. Artom, continuando la sua derashà, menzionò anche che i maestri nella loro parabola dissero anche che la sentenza viene scritta nel giorno di Rosh Hashanà e viene sigillata nel giorno di Kippur. Tuttavia i messaggeri celesti non eseguono le sentenze fino al settimo giorno di Succòt, cioè il giorno di Hosha’nà Rabbà. Gli israeliti, come pure i loro antenati, sono coscienti del fatto che questo è un periodo di giudizio. Se non lo sanno per averlo studiato, lo sentono istintivamente e come i loro antenati si preparano per questa solennità. Per prepararsi al giorno del giudizio bisogna consultare il registro delle proprie azioni e dei propri pensieri. In questo registro vi sono tre colonne: in una è scritto “Dio”. Nella seconda “Il prossimo” e nella terza “Noi stessi”. Nella prima dobbiamo rivedere come ci siamo comportati nel confronti del Padreterno. Nella seconda, come ci siamo comportati nel confronti del prossimo. Abbiamo pensato solo ai nostri diritti o abbiamo anche rispettato quelli degli altri? Abbiamo praticato la mitzvà di volere il bene del prossimo come per noi stessi? Abbiamo osservato in modo appropriato e nella giusta misura la mitzvà di fare tzedaka”? Più di una volta siamo stati generosi quando la nostra offerta è stata annunciata in pubblico e quando sorrisi di approvazione da una gran parte del pubblico presente ci hanno compensato per la nostra liberalità. Ma quante volte abbiamo ignorato le vere disgrazie, e siamo stati sordi alle richieste degli indigenti! E per quanto riguarda noi stessi, abbiamo cercato di controllare i nostri istinti?
R. Yosef Shalòm Eliashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) citato in Divrè Aggadà (p. 397) disse che non è possibile fare una vera teshuvà senza lo studio della Torà. Per questo i maestri nella quintaberakhà della ‘amidà nella quale preghiamo che l’Eterno ci aiuti a fare teshuvà i maestri redassero il testo che dice: “Facci ritornare, Padre nostro, alla tua Torà […] e fa che ci emendiamo in perfetta teshuvà”. Una cosa dipende dall’altra perché senza avere conoscenza della Torà non possiamo sapere quali sono le nostre mancanze.