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    Hosh’anà Rabbà, Sheminì Atzeret e Simchà Torah: usi e costumi degli ebrei di Roma. Intervista a Sandro Di Castro

    L’ultimo giorno della festa di Sukkot è detto Hosh’anàRabbà, che rappresenta la chiusura di un ciclo iniziato con Rosh Hashanà: in questa occasione viene posto il sigillo al giudizio divino. Per questo, è detto anche “piccolo Kippur” e, per tutta la notte che lo precede, è usanza rimanere svegli e leggere il libro di Devarìm. 

    Una fonte storico-religiosa ci fornisce però informazioni diverse riguardo a questa usanza. Infatti «Zidkiyahu Ben AvrahamAnav, rabbino romano vissuto nel 1240 – spiega Sandro Di Castro, responsabile del Tempio dei Giovani – scriveva nello Shibolè HaLechet: “C’è chi usa, nella notte del giorno del salice, rimanere sveglio ad occuparsi di Torah, iniziando da Bereshìt fino a Vezòt HaBerachà, l’ultima Parashà”. Siccome oggi sono pochi coloro che passano la notte a leggere per intero la Torah, si fa solamente il libro di Devarìm fino alla prima chiamata di Bereshìt».

    La notte di Hosh’anà Rabbà si legge anche il Tiqqun, un testo kabbalistico che conclude l’opera di pentimento, la Teshuvà. Attualmente, a Roma, questo brano si recita nei templi, ma prima «si faceva solamente in alcune case. Molti anni fa questa cerimonia si svolgevaa casa di “Zio” Angelino Della Torre, dove partecipavano tutti i Rabbanim. È un momento di incontro, che viene accompagnato dall’usanza di suonare lo Shofar sette volte, con inni e canti che ricordano anche le Selichòt». Come da tradizione, a Roma si intona lo “Yedid Nefesh”, un canto suggestivo e profondamente tradizionale, tramandato dal Morè Della Rocca e dal Morè Nello.

    «La mattina di Hosh’anà Rabbà è la rappresentazione della gioia, le Sinagoghe si popolano “come al momento di Neilà nel giorno di Kippur” all’insegna dell’armonia e della profonda ritualità. Mi capitò una volta, mentre giravo dietro ai Sefarìm con altri rabbini, di sentire degli israeliani dire “sembra di stare nel Bet HaMikdash”. Infatti, nel Santuario di Gerusalemme, era il giorno della felicità per eccellenza. È scritto che “chi non ha visto la gioia dello Yom HaAravà nel Bet HaAmikdash, non ha visto la vera gioia”. Un sentimento che, grazie al forte collegamento con Gerusalemme, viene in parte rievocato».

    «Su un libro di Halakà romana, scritto da un rabbino-medico della famiglia degli “Anav” tra il XIII ed il XIV secolo, sono riportati usi e divieti sull’utilizzo della Aravà, del salice nel giorno di Hosh’anà Rabbà. È proibito infatti “prenderne i rami dopo averlo sbattuto, poiché le foglie cadute simboleggiano i peccati e godere della pianta: non si può bruciare o utilizzarla per farci degli “shippudìn”, spiedini, da mangiare con la carne. All’epoca c’era questa tradizione. Non si può nemmeno godere del Cedro in quel giorno ed al termine della festa si dovrebbe poggiare la Aravà nel capo del letto”».

    A Sheminì Atzeret non ci sono tradizioni o Mitzvòt rilevanti. È detto “ottavo di chiusura, ed è paragonato al giorno seguente delle grandi feste o matrimoni, in cui padrone di casa desidera rimanere con gli amici più stretti: allo stesso modo il Signore si riserva uno spazio per restare solamente con il popolo ebraico”. «Per l’occasione, a Roma, nella preghiera serale di Arvìt, si recita il canto di “Kol HaBechor”, che è un accenno al brano della Torà che si leggerà il mattino seguente» spiega Sandro Di Castro.

    Infine, dopo Sheminì Atzeret, c’è Simchà Torah, la festa in cui si conclude e si inizia nuovamente la lettura della Torah. «Il Sefer HaTadir, scritto da Moshè Bar Yekutiel de Rossi, un rabbino romano vissuto nel XIV secolo, dice che un’altra usanza di questo giorno era quella di prendere i cedri del lulav e mangiarli col miele o cose dolci per celebrare la dolcezza della Mitzvah». 

    La sera della festa si fanno le Haqqafòt, i sette giri coi Sefarìm attorno all’altare. Nel momento in cui si estraggono i rotoli della Torah, tra i vari canti si intona anche lo Yafuzu Oyevecha, il cui attuale testo «è stato riproposto con la musica originale leggermente diversa da come la cantiamo noi oggi, dal maestro Claudio Di Segni per il Limud del Morè Eliseo». Si recitava solo in occasione di Simchà Torah, ma è stato introdotto anche per Kippur «grazie a Rav Della Rocca, che lo propose come canto aggiuntivo poiché in anticipo nell’orario rispetto al suono dello Shofar».

    Feste ricche di tradizioni ed usanze antiche, che gli ebrei di Roma conservano con molto affetto, attenzione e rispetto. L’obiettivo è di tramandarle, come accaduto finora, affinché non vadano perdute. Un lungo filo che dura da millenni, e che spetta a noi tramandarle alle nuove generazioni.

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