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    Estate 1953 – Quel viaggio dei giovani ebrei italiani alla scoperta del Kibbutz

    Siamo nell’estate del 1953. Un nutrito gruppo di giovani italiani affronta un viaggio di lavoro e studio in Israele nel kibbutz religioso Yavnè. Questo percorso, organizzato dal “Dipartimento” per la gioventù e l’Hechalutz, l’Agenzia ebraica, ebbe come scopo di riunire ragazzi osservanti e non, per i quali, soprattutto per quest’ultimi, fu un’occasione per conoscere e apprezzare i valori dell’ebraismo totale. I giovani italiani, per lo più romani, giunti nella Terra, si unirono a ragazzi ebrei provenienti dalle altre parti del mondo, per affrontare un’esperienza di circa un mese sicuramente non facile, ma completamente educativa.

     

    Il gruppo italiano era guidato da Leo Levi, uomo esperto nell’organizzazione e nella guida di giovani, i quali appresero cosa volesse dire il termine laalot, salire. E qui si può notare che in ebraico quando si vuole dire “vado in Eretz Israel a vivere “si parla sempre di Alia’,  “salita” non in senso geografico ma di tipo spirituale. Eretz Israel, infatti, è considerata dalla tradizione ebraica Eretz  Achodesh, la Terra sacra, distinta da tutte le altre per il popolo d’Israele, che, nel corso della sua tormentata storia e dei suoi esili, ha sempre anelato ad un ritorno, sottolineato ampiamente nella visione dei Profeti.  

     

    Gli italiani, come ho detto, principalmente provenienti da Roma, animati da ideali pioneristici e religiosi, non fecero altro che realizzare il loro sogno di “salire” nella Terra dei loro Padri tanto che, molti di loro, tornarono nuovamente in Israele, questa volta per viverci.  Ebbene, eccoli nel kibbutz questi ragazzi, che nel cuore avevano le parole: “Siamo venuti alla terra, per costruirla e per essere costruiti”.  E questo accadde attraverso il lavoro giornaliero dei giovani nella comunità agricola di Yavnè, la cui fondatezza si esprimeva attraverso ideali comunitari: tutta la proprietà era in comune, compresi gli indumenti, indossati dai membri della collettività.

     

    Nel kibbutz vigeva la più assoluta uguaglianza tra uomini e donne e le decisioni venivano prese a maggioranza. È da sottolineare che queste prime strutture, in cui si lavorava animati da una enorme carica di idealismo, divennero la forza portante del movimento sionista in Israele. Acquistato un terreno, i chaluzim, i pionieri cercavano subito di renderlo abitabile e produttivo. Spesso si costruiva subito una torre di vedetta e una staccionata edificati nel corso di una notte e già pronte la mattina; si andava  a lavorare la terra all’alba per via del caldo soffocante, ma il duro lavoro veniva ripagato dallo spuntare di aranceti, che prosperavano nel terreno sabbioso, gli olivi crescevano sui pendii più dolci ed il dialogo tra il deserto e il terreno seminato costituì uno  dei temi principali del paesaggio, tanto che le comunità agricole furono il simbolo del Paese che stava  rinascendo.

     

    I giovani romani si distinsero nel kibbutz Yavnè per la loro opera, dividendosi tra seminari di studio e lavori agricoli. La buona conoscenza dell’ebraico, lo spirito di gruppo, la serietà e l’allegria, che condividevano con gli altri partecipanti, fecero sì che gli italkim, gli italiani, fossero considerati la forza portante dei membri di questo viaggio che approssimativamente erano in tutto ottocento. Ovviamente non mancarono le gite alla scoperta dei luoghi più incantevoli d’Israele: dalle sorgenti del Giordano, a nord, fino al cuore del deserto del Negev, dalle testimonianze archeologiche della roccaforte di Masada alla visita di Qumran, con il grande complesso della comunità essena e poi la visita della Sinagoga di rito Italiano a Gerusalemme.

     

    Dunque il  viaggio  dell’estate 1953 fu per i  ragazzi  romani un percorso educativo, religioso, di apprendimento, di lavoro, ma soprattutto rappresentò un’esperienza personale, profonda da comunicare, da trasmettere al momento del loro ritorno a Roma; in quel  momento si sarebbero trovati di fronte ai loro amici pronti ad ascoltare i racconti di quel gruppo di romani, che, attraverso quell’itinerario, avevano riconquistato o anche  radicato maggiormente le varie componenti della  propria identità  ebraica.  In conclusione Eretz Israel fu destinata a diventare la patria culturale di tutti gli ebrei, un rifugio per coloro che soffrono la peggiore oppressione, un campo di attività per i migliori, un ideale unificante e una sorgente di salute spirituale per gli ebrei di ogni paese.

    Nelle foto: “Il viaggio in Israele dei giovani ebrei di Roma”, in “La Voce della Comunità Israelitica”, Tevet 5714-Dicembre 1953, Anno II, n. 11, p. 3, conservato presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma “Giancarlo Spizzichino”

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