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    ROMA EBRAICA

    Dove va l’essere umano

    Intervista a Yarona Pinhas tra cabbalà, attualità e visione del mondo

    Yarona Pinhas è nata in Eritrea. Nel 1975 si è trasferita in Israele dove si è laureata in Linguistica e Storia dell’Arte all’Università Ebraica di Gerusalemme. È un’insegnante, autrice di saggi, nota a Roma per le sue conferenze e corsi di libra ebraica. All’Università di Gerusalemme si è appassionata allo studio della Cabbalà, che ha poi approfondito negli anni, arricchendo le sue conferenze di spunti tratti dalla tradizione mistica ebraica. Lunedì sera parteciperà al Festival della Cultura ebraica di Roma con una lezione su “Dove va l’essere umano”.

    Yarona, il suo incontro di lunedì è intitolato “Dove va l’Essere Umano”. Come risponderesti a questo interrogativo?
    Nell’ebraismo si dice che devi sapere da dove vieni, dove stai andando e a chi devi rendere conto. Siamo in una fase dell’umanità in cui dovremmo fermarci un momento e cercare di capire dove stiamo andando. Veniamo dal periodo del COVID, dalla malattia. Pensavamo che ne sarebbe uscita un’umanità migliore ed invece vediamo un’umanità sempre più sofferente e violenta; le relazioni umane ormai quasi non ci sono più, c’è un consumismo che consuma la persona, e non c’è serenità. Il conflitto in Israele che ci ha riportati a 80 anni fa e come dice Bernard-Henri Lévy non riguarda le politiche israeliane, ma fa rivivere gli anni Venti del secolo passato. Siamo quindi in un periodo storico dell’umanità in cui le scelte che faremo ci condurranno in una direzione o in un’altra. Dal 7 ottobre vedo Israele come una bella donna che ha subito uno stupro, perché le terre sono donne (Adam è uomo e adamà è terra) e Israele è una bella donna che ha subito una mutilazione, uno stupro e non viene creduta. Non solo non viene creduta, ma viene anche portata in tribunale. L’Europa è invece una donna anziana, una volta nobile, che ha perso i suoi averi e i suoi valori e soffre di dimenticanza. Chi siamo? Ho pensato di portare la visione ebraica di quello che sono questi tempi, di come possiamo riportare un altro tipo di messaggio all’umanità, il messaggio della Torah. Nell’ebraismo c’è un tempo: seimila anni di crescita della coscienza umana, poi con il settimo millennio inizierebbe l’era della pace, della redenzione. Siamo nell’anno 5784, nel millennio in cui ci dobbiamo occupare di ristabilire la giustizia sociale per preparare l’umanità alla venuta del Messia.

    Domandarsi dove sta andando l’essere umano presuppone chiedersi da dove venga l’essere umano e chi sia l’essere umano nell’ebraismo.
    Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza. Siamo una scintilla del divino. Siamo prima un’anima (neshamà) e come anima siamo a sua immagine e somiglianza. Ciascuno di noi ha un nome, shem, il codice della sua neshamà, anima, e ognuno di noi ha una missione da compiere: portare del bene e praticare “amerai il prossimo tuo come te stesso”. Nella visione ebraica umana, l’uomo non ha solo 70-80 anni di vita come corpo, viviamo e moriamo, ma in ciascuno di noi c’è la neshamà, la parte divina che dà la vita, e ciascuno di noi è ambasciatore del divino con i suoi talenti, con le cose che è venuto a fare qui. Ciò che deve fare l’essere umano è mantenere questo giardino meraviglioso che è l’universo, perché quando Dio pone l’uomo nel giardino dell’Eden dicendo all’uomo che deve conservare e lavorare la terra. L’essere umano è quindi un essere responsabile che rappresenta il divino e la sua azione può portare il bene o il male. La scelta è nelle nostre mani. Possiamo quindi scegliere se collegarci al precetto di amare il nostro prossimo oppure possiamo portare odio. Soltanto con la prima opzione possiamo creare una rete di comunità e insieme possiamo collaborare e possiamo aiutare le parti della popolazione che hanno più bisogno di aiuto, mentre l’odio porta all’odio, alla distruzione, alla morte. In quale narrativa scelgo di vivere?

    Cosa può insegnare la cabbalà alle donne e fino a che punto le donne possono accedere ad un sapere mistico tradizionalmente riservato agli uomini?
    Ho avuto la fortuna di incontrare la cabbalà nel dipartimento all’Università di Gerusalemme. Quando ho iniziato a seguire le lezioni ho sentito di essere arrivato a casa, perché è uno studio che apre a certe visioni di vita che non ho trovato altrove. L’ebraismo è una domanda che porta ad un’altra domanda e porta ad aprire a visioni diverse, come nel dibattito talmudico. Ed è nella diversità che ci arricchiamo. L’ebraismo dice che non esiste un pensiero che rende l’umanità uniforme, è lì che torniamo alla torre di babele. Dio spacca la torre e suddivide la popolazione in 70 lingue. Nella cabbalà, nella Torah interiore, ci sono i 70 visi della Torah, ciascuno ha la propria modalità di vedere le cose. Ciò mi ha talmente affascinato che ho voluto incontrare un cabbalista e studiare con rabbanim che non sono solo studiosi di cabbalà ma che la vivono. Ho avuto difficoltà, ma ho insistito e ho trovato un rabbino che con una modalità di separazione uomini donne ha iniziato a insegnarmi la cabbalà. Si dice che le restrizioni appartengano al passato ed oggi non è più un problema. In passato, ad esempio, non volevano che la donna lasciasse la famiglia e si occupasse dello studio, mentre oggi è diventata anche una necessità per i regali che ti dona questo studio, sono strumenti meravigliosi che penso sia un peccato non conoscere. Strumenti che sono comunque codificati nella Torah, nella lingua ebraica.

    Qual è secondo lei l’importanza di iniziative culturali come il Festival “Ebraica” quest’anno, in un periodo di guerra e di crescente antisemitismo nel mondo?
    Ammiro la Comunità ebraica di Roma. Ammiro chi ha di organizzare l’evento anche quest’anno. È proprio in questo momento importante che dobbiamo raccontare chi siamo dal nostro punto di vista e non cedere alla menzogna che sta inondando il mondo. Siamo un popolo meraviglioso, siamo una famiglia, che ha affrontato millenni di avversità e siamo ancora qui. Abbiamo trovato il codice di come rimanere individuali ma allo stesso tempo globali perché operiamo nel mondo a cui abbiamo contribuito tantissimo. Il mondo non lo deve dimenticare e non deve dimenticare che siamo qui. E noi non scordiamo i nostri ostaggi. Il dolore più grande per me è stata l’assenza di compassione e l’appello per riportare i nostri ostaggi a casa. Perché uno può essere propalestinese ma allo stesso tempo condannare le atrocità che sono state fatte e chiedere la liberazione dei rapiti. Cosa ti ha fatto questa gente? Da dove viene questo odio? Se non diamo voce a chi adesso non può parlare perché è nei tunnel, lo dobbiamo fare noi in qualsiasi modo, e allora dico “bravi!” che avete trovato la modalità giusta di fare il festival e quest’anno sono ancora più orgogliosa di parteciparvi. Non bisogna arrendersi all’odio.

    Cosa pensa in questo periodo?
    Che non si deve perdere la speranza. Siamo un popolo. Ciò che ci ha mandato avanti per millenni è la speranza di tornare alla nostra terra, a Gerusalemme e questo sogno si è avverato con tantissime difficoltà che ci sono ancora adesso. Dobbiamo portare avanti la torcia di un mondo migliore e sperare sempre nel bene. Dobbiamo insegnare ai giovani il linguaggio del cuoree delle emozioni.

    Cosa potrà imparare chi verrà alla sua lezione?
    Che abbiamo una scelta, abbiamo il libero arbitrio. Con la nostra lingua possiamo innalzare o uccidere qualcuno. Sta tutto nella nostra lingua e nelle nostre azioni. Con un coltello puoi tagliare pane o uccidere qualcuno: da quale parte della storia voglio essere? Tra quelli che hanno salvato, che vogliono costruire o dalla parte di chi vuole distruggere? Costruire è molto difficile, distruggere invece è facile. Non buttiamo tutto quello che abbiamo sacrificato con la seconda guerra mondiale, ritroviamo i valori, torniamo ai valori, al cuore .

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