Amedeo Zarfati ha 85 anni e da 50 vive in Israele, dove insieme alla moglie Batya ha cresciuto quattro figli e affrontato una vita piena di sfide e di soddisfazioni. Ha servito l’IDF per circa 35 anni: dalla guerra del Kippur è stato testimone di duri scontri e di servizi di assistenza. Ha sempre vissuto con orgoglio il suo ebraismo e il suo amore per il Paese. Shalom lo ha intervistato.
Qual è la storia della tua famiglia?
La mia famiglia aveva un negozio a Via dei Falegnami, vicino a piazza Mattei. Poco prima della retata nazista nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, mio padre Mario ricevette una telefonata di un suo amico, Romolo Di Marzio, che gli disse frettolosamente “Mario, non fare domande, prendi la famiglia e vieni a casa mia”. Papà rimediò un carrettino e ci mise sopra tutto ciò che poteva. A casa Di Marzio siamo rimasti nascosti in soffitta fino all’arrivo degli americani.
Quando ha deciso di fare l’alyah?
A 16 anni sono andato alla sochnut di Via Nizza. Volevo andare in kibbutz in Israele. Alla sochnut mi hanno dato un foglio che mamma e papà avrebbero dovuto firmare per darmi il permesso di andare in Israele, ma, quando gliel’ho dato, cosa mi hanno detto! Ho quindi aspettato qualche anno. Nel 1960 ho conosciuto la ragazza con cui sarei rimasto sposato per più di 50 anni, Batya, incontrata durante un viaggio in Israele. Dopo il nostro secondo incontro le dissi “ti sposo, lo sai?”. Pensava che fossi un matto italiano: invece l’8 marzo del 1962 ci siamo sposati. Per un periodo siamo stati in Italia, lavorando sodo per fare l’alyah.
Quando scoppiò la guerra del Kippur nel 1973 era arrivato in Israele da pochi mesi. Che cosa accadde?
Il giorno che è scoppiata la guerra ero a casa. Decisi di presentarmi alla mehinà militare a Jaffo. Essendo arrivato in Israele da soli sei mesi e non avendo fatto nessuna esercitazione, non mi potevo arruolare. Tuttavia, avendo la patente per guidare piccoli autobus, mi hanno incaricato di trasportare malati e soldati con helem krav, il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Erano ragazzi giovani, di 18 anni, che combattevano in prima linea. Per qualche mese ho fatto questo lavoro con l’esercito: guidando anche per lunghe distanze, andavo a prendere i ragazzi traumatizzati e li riportavo a casa o in ospedale. Ho anche fatto un corso per provare a farli parlare: molti di loro avevano infatti gli occhi impietriti, non parlavano, non dicevano niente, mentre io cercavo di risvegliare i loro sensi. C’era chi non parlava per niente, chi balbettava, qualcun altro si era dimenticato di tutto ciò che era accaduto; c’era anche chi mi diceva ‘Non mi riportare a casa, riportami al fronte!’.
Durante la guerra del Kippur, a Roma sapevano cosa stava accadendo?
La mia famiglia a Roma non si rendeva bene conto di cosa stesse accadendo qui. Papà e mamma, da buoni romani, telefonavano per sapere come stessi, ma sono stati più preoccupati durante la guerra con l’Iraq, quando ormai facevo il militare da diversi anni, ero nella mehinà biologica e chimica. Ci avevano detto di non rispondere ai missili e che gli americani avrebbero pensato a tutto. Io abito a Ramat ha Sharon e vicino a noi, a Ramat Gan, sono caduti un sacco di missili.
Come ha servito l’esercito nei successivi 15 anni?
Ho fatto il giuramento al Kotel: quando mi hanno consegnato la Torah e il fucile ho sentito quanto appartenessi a questa terra, la terra di Israele. Lo penso veramente: Ani Israel ve Israel Ani. Oltre all’esercito ho servito anche nel Mishmar ezrahi, la guardia civile.
Cosa ha fatto dopo il servizio militare?
Mi sono dedicato al commercio: uscivo di casa alle 7 del mattino e tornavo alle 21.30. Avevo costruito una catena di 7 negozi con 26 commessi e diverse concessioni dall’Europa. Non era facile. Ero sempre occupato e ogni 3 mesi tornavo in Italia per comprare ciò che mi serviva per i negozi. Avevo la concessione di Swarovsky, avevo prodotti di Christian Dior, Paco Raban, insomma, una catena di negozi importanti. Quando mia moglie è stata male ho chiuso le attività e le sono stato vicino.