Valentyne ha 21 anni, una famiglia, degli amici, dei sogni. Una vita normale vissuta in Ucraina, stravolta dagli orrori della guerra: Kharkiv, la sua città natale, è stata tra le prime a soccombere a causa dei bombardamenti. In questa intervista raccontiamo il viaggio che lo ha condotto nella Capitale.
Ciao Valentyne, innanzitutto come procede la tua nuova vita a Roma?
Tutto bene, sia io che la mia famiglia: mio padre si occupa di gioielli e sta iniziando a lavorare, mio fratello e mia sorella stanno studiando alla scuola ebraica, io sto lavorando e pensando di ricominciare gli studi. Anche mia madre è qui con noi.
Cosa studiavi?
Animazione. Frequentavo l’università in Repubblica Ceca, ma ho deciso di interrompere a causa del Covid e sono ritornato in Ucraina con il presupposto di ricominciare una volta finita questa situazione, ma la guerra ha bloccato tutto.
Cos’è successo?
È iniziato tutto all’improvviso: si sentiva parlare della possibilità della guerra molto tempo prima che scoppiasse, ma nessuno pensava che si sarebbe arrivati a questo punto. Una mattina abbiamo sentito delle esplosioni e nel frattempo arrivavano notizie dell’avanzata dell’esercito russo in Ucraina. Così abbiamo deciso di lasciare immediatamente la città.
Avete pensato fin da subito che non sareste più tornati?
No, l’idea era partire e poi tornare qualora le cose fossero migliorate. Purtroppo non è stato così.
Come vi siete spostati?
In macchina. Mio padre ha guidato per 36 ore consecutive, smettendo solamente per chiudere gli occhi una decina di minuti ogni tanto. Non potevamo fare altrimenti, arrivavano notizie preoccupanti. A posteriori è stata una decisione giusta, perché se ci fossimo fermati non saremmo stati più in grado di proseguire. I collegamenti sono stati progressivamente interrotti, gli stessi soldati ucraini distruggevano ponti per non far andare avanti i russi.
Fin dove siete arrivati?
A Leopoli, lontani dal confine russo. Ci siamo fermati da degli amici di famiglia. Lì abbiamo chiamato la Sochnut, apprendendo che erano stati organizzati dei bus per portare le famiglie ebraiche ucraine in Polonia. Abbiamo deciso di salire. Una volta partiti, però, i piani cambiavano continuamente. Tantissime persone arrivavano ai confini polacchi e avremmo aspettato giorni prima di entrare. Quindi è stato deciso di andare a Bucarest, in Romania.
Lì siete entrati in contatto con la comunità ebraica italiana?
Sì, grazie ad una donna che ha viaggiato insieme a noi. Questa ci ha dato il contatto del Maccabi Europa, il quale ha interceduto per noi contattando la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, che ha organizzato il trasferimento a Roma.
Come siete stati accolti?
Calorosamente. Noemi Di Segni e la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello ci hanno portato dall’aeroporto alla casa, dove ad aspettarci c’erano moltissime persone per darci il benvenuto. È stato divertente, perché in seguito anche altri sono passati a trovarci, per portare dei regali o anche solo per salutare. Sia io che la mia famiglia abbiamo apprezzato tantissimo, siamo davvero grati.
Ti trovi bene a Roma?
Si, mi sento molto bene qui, ma allo stesso tempo sento che un giorno vorrei tornare in Ucraina per vedere Kharkiv, la mia città, e dare il mio contributo per ricostruirla.
È stata distrutta?
Case, parchi, architettura, musei, tutto distrutto. Ci sono città in condizioni peggiori, ma è messa male, non so quanto ci metteremo a ricostruire.
Il resto della tua famiglia è riuscito a lasciare il Paese?
Una delle mie nonne vive in Israele, l’altra viveva con mio nonno in un villaggio in Ucraina, ma è stato completamente devastato. Ora sono rifugiati in Germania. Non siamo riusciti a partire insieme perché la nostra è stata una decisione improvvisa, inizialmente pensata come temporanea, e loro in un primo momento non volevano andare, non credendo che sarebbe scoppiata la guerra. A Kharkiv è rimasta solo la sorella di mia nonna, vuole restare lì, non ne vuole sapere di andar via.
E i tuoi amici?
Ci sentiamo spesso. Anche loro hanno subito le conseguenze del conflitto, come tutti. Al telefono ci aggiorniamo su quello che sta succedendo e vorremmo raccontarlo a quante più persone possibili. Ci tengo a sottolinearlo: la guerra non è finita, centinaia di persone muoiono ogni giorno e bisogna spargere la voce su quello che sta accadendo. È molto importante.