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    Comunità ebraica: guardare al dopo coronavirus affrontando l’emergenza economica con nuove energie

    Cominciò tutto, forse, con la cosiddetta Direttiva Bolkestein. La quale torna periodicamente a far parlare di sé e di sicuro non giova alla causa europeista nel nostro paese. Era il febbraio del 2006. E’ trascorso molto tempo. Probabilmente allora per la prima volta l’Italia jewish che vive a nord di Roma si accorse davvero di certe peculiarità locali, soprattutto economiche. Da sempre cospicuamente rappresentata nelle istituzioni nazionali di Lungotevere Sanzio, affacciate sul fiume e sul cuore della capitale, la buona borghesia ebraica, colta e progressista come si conviene, ha coltivato nella nostra città amicizie fraterne e personali, collaborazione politica e intellettuale. Attenta all’understatement, devota al bon ton descritto e immortalato da Giorgio Bassani, una certa Italia ebraica vede tuttora nell’anima profonda della comunità romana molto folklore, molta saggezza, maniere ruvide ma simpatiche, un dialetto che sopravvive, l’attaccamento indistruttibile alle tradizioni. Primo Levi ha invece raccontato in pagine straordinarie de “La tregua” l’amicizia che sulla via del ritorno lo legò a un ragazzo del popolo, uno di piazza. Scoprì un romano tipico, ma tipico di una Roma del vecchio ghetto, che gli era ignota. Ancora oggi sfugge a molti, temiamo, la precarietà economica che condiziona l’amministrazione della comunità più numerosa. E’ difficile essere ottimisti sull’ascolto che si potrà ottenere presso la grande politica dopo il lockdown, in un momento di crisi tanto imprevista quanto totale. Come in molte economie cittadine fondate soprattutto sul turismo, al tempo del virus la sospensione assoluta caratterizza il commercio piccolo e medio, e colpisce un numero elevato di famiglie che dipendono dai banchi degli ambulanti e spesso anche dai cosiddetti urtisti. La Deputazione di Assistenza già prima vedeva in continuo aumento le richieste di sostegno, in percentuali difficilmente accettabili per i cultori del luogo comune, che vedono in ogni ebreo un Rotschild o un broker onnipotente di Wall Street. Certo, ci sono famiglie abbienti che mai hanno lesinato o fatto mancare aiuto e solidarietà. Ma quanti dipendono da asset immobiliari, da investimenti importanti, come anche alcune decine di professionisti con i relativi studi molto conosciuti ed affermati, vedranno diminuire le proprie disponibilità nei primi mesi, anzi anni, del dopo Covid19. La nostra Comunità è una organizzione onlus che si basa sul contributo volontario degli iscritti e conserva cespiti immobiliari sopravvissuti alle insidie della storia. Possiede un sistema scolastico che impegna centinaia di addetti. Ha dovuto organizzare strutture di sorveglianza che operano in sintonia con le forze dell’ordine. Numerose sinagoghe affiancano le due più importanti e onorano le nostre antichissime liturgie. La comunità libica è da decenni perfettamente integrata condividendo responsabilità e quotidianità. Il Museo, la libreria, il centro di cultura sono fiori all’occhiello e dimostrano il nostro contributo insostituibile alla vita della città, così come l’informazione puntuale e precisa fornita con ogni strumento reso disponibile dalle tecnologie dell’informazione. Il pessimismo della ragione, saldamente unito con l’ottimismo della volontà, aiuterà a risolvere i problemi. Infatti non dobbiamo nasconderci che tutto ciò è a rischio, il rischio del giorno dopo. Il rischio di una emergenza economica assoluta, mai vista prima. 

    Negli anni cinquanta, dopo la Shoà, arrivarono gli aiuti delle organizzazioni ebraiche internazionali, e poi – per quanto inadeguate e discutibili — le riparazioni tedesche. Infine con il cosiddetto boom del miracolo italiano si formò un valido ceto medio, ben più numeroso di quello emerso nei primi sessanta anni del Regno d’Italia. Dopo ogni emergenza e calamità si manifestano nuove occasioni e opportunità, spesso inaspettate. Ma dovremo essere pronti a individuarle, e il silenzio attuale deve essere sostituito da una chiamata a raccolta di tutte le competenze. 

    Chi conosce Roma avrà notato che i gabbiani se ne sono andati, ne restano pochissimi. Vivevano degli scarti del turismo di massa e dei ristoranti. A loro è bastato seguire il corso del fiume per tornarsene al mare, dove la creazione li aveva collocati. Gli ebrei di Roma non potranno fare altrettanto. Benché da sempre amino viaggiare, tuttavia non sono nomadi. Neanche un po’.

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