Chi ancora era vivo si domandava: “Perché io no? Per quale motivo sono ancora in vita?” Pensieri indelebili che segneranno le menti di coloro che il 27 gennaio 1945 avrebbero assistito alla loro liberazione. Quel giorno lo racconta Primo Levi nel testo La tregua, (Cap.1 “Il disgelo”). Erano un’avanguardia di esploratori dell’Armata Rossa giunti ai cancelli di Auschwitz. Nel pomeriggio arrivarono in massa i soldati russi e abbatterono le inferriate trovandosi di fronte 7000 sopravvissuti ridotti ad un numero sul braccio, a prede da inseguire, a corpi esanimi. Quando nel 1945 fu distrutto il recinto intorno ai lager nazisti, sembrava fosse finito l’incubo ma da quel momento iniziò il dolore, il tormento dei sopravvissuti alla Shoah, la catastrofe. Il rimpatrio dei superstiti fu lungo e doloroso, lento in quanto essi non tornarono immediatamente nei luoghi da dove i nazisti li avevano prelevati. Di fatto, scrive Elisa Guida per quanto riguarda gli ebrei italiani nel suo testo La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella 2017:
“L’Armata Rossa entrò nel Lager ben tre mesi prima della fine del conflitto in Europa e la maggior parte dei superstiti tornò in Italia solamente alcuni mesi dopo la resa incondizionata della Germania”. Inoltre, negli scampati comparve quella che fu definita ‘la sindrome post traumatica da stress’ i quali sintomi imperversavano giorno e notte nei sopravvissuti: ansia e scenari di torture, violenze e crudeltà alle quali erano stati sottoposti o anche solo immagini di sevizie alle quali avevano assistito: le marce della morte, i trasferimenti sotto la neve ed il gelo da un campo all’altro imposti dai nazisti sul finire della guerra. Spostamenti durante i quali, afferma Elisa Guida “la maggior parte delle persone fu assassinata durante il percorso o morì nel lager di destinazione”.
Coloro che sopravvissero fino al ritorno a casa (tra l’aprile e il maggio del 1945) ebbero la necessità di mettere in atto potenti meccanismi di rimozione e negazione per non impazzire. Un “buco nero” da cui i fantasmi del passato, espressione di una sofferenza emotiva inestinguibile e da un imponente e protratto trauma da morte incombente, riaffioravano in modo inatteso o erompevano in modo violento in alcuni momenti critici dei superstiti. Quel che era finito in realtà era l’incubo reale, ma quel che iniziò al ritorno degli scampati fu il dolore personale di questi uomini. spogliati della loro identità di esseri umani e torturati da ossessioni che li tormentavano giorno e notte. Riprendendo le parole di Elisa Guida:
“Il viaggio verso casa non rappresentò affatto un ritorno alla vita di prima o alla normalità […]. La vita non riprenderà normalmente il suo corso; ciò che è accaduto è accaduto per sempre e la società ne uscirà profondamente trasformata”.
Le violente emozioni patite dai sopravvissuti alla Shoah dimostrarono come le conseguenze di questi traumi siano cresciuti dopo la seconda guerra mondiale e come siano state trasmesse di generazione in generazione. La prima di questeè quella dei sopravvissuti ai lager. Le seconde sono i discendenti diretti ed infine anche i nipoti. Giorgio Caviglia e Alberto Sonnino nel loro saggio inserito nel volume Tra trauma e memoria. Le ricerche di Mordko Tenenbaum nella comunità ebraica di Roma, curato da Enzo Campelli, Gangemi 2023, sottolineano che: “gli ebrei della Comunità romana abbiano pagato uno scotto maggiore rispetto alle altre comunità ebraiche a causa della chiusura fisica e mentale, dovuta alla presenza massiccia, opprimente, censoria della Chiesa cattolica. […] I sopravvissuti alla furia nazifascista loro malgrado sono rimasti portatori di ferite insanabili destinate a trasmettersi alle generazioni successive […]”.
La psichiatra israeliana Y. Danieli, nel suo testo Psychoterapists’ partecipation in the conspiracy of silenceabout the Holocaust asserisce di aver rilevato quello che lei definì “la congiura del silenzio”: il patto segreto e inconscio stabilito tra i sopravvissuti e i potenziali interlocutori a cui si sarebbero potuti rivolgere per una condivisione del peso della testimonianza della tragedia subita; un tacito accordo che avrebbe previsto il non poter parlare degli uni, in corrispondenza del non volere ascoltare degli altri. Il “mutismo” colpì molti reduci dai campi, resi incapaci di narrare l’insensatezza della quale furono vittime. Come scrisse Primo Levi, i testimoni più veri furono coloro che non poterono testimoniare.