Rav Chaim Vittorio Della Rocca lo ricordano tutti con grande stima ed affetto. I suoi allievi, la sua famiglia, gli amici e perfino chi lo ha conosciuto appena. Chiunque lo rammenta come un maestro di ebraismo e di vita. Era il “rabbino di famiglia” per molti della Comunità Ebraica di Roma e, ad un anno dalla sua scomparsa, Shalom ha raccolto le voci di alcuni suoi studenti, affinché la sua memoria possa essere di benedizione per le generazioni future.
“Non ho mai nascosto di essermi sempre ispirato a lui, sia come Chazàn (cantore) che in generale nella vita. Andava oltre il semplice insegnante che trasferisce delle conoscenze, era un maestro che ti sapeva guardare negli occhi e capire quando qualcosa non andava per il verso giusto. – ricorda Gadi Piperno, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Firenze – La sua famosa frase era “dillo al tuo Morè”, e così riusciva a creare un rapporto di comunicazione diretta che superava l’insegnamento. È rimasto nel cuore di coloro che hanno avuto l’onore, il merito ed il piacere di essere suoi allievi”.
Rav Della Rocca ha accompagnato intere generazioni nella crescita ebraica e culturale, un personaggio talmente importante da “non poter essere condensato in poche righe – dice Jonathan Pacifici, presidente del Jewish Economic Forum – ricordarlo è come ricordare un genitore. Non ha mai sprecato un minuto della sua esistenza, riuscendo in ogni momento ad insegnare Torah a chi aveva intorno. Una delle lezioni che ci ha lasciato è sicuramente quella della fiducia nei confronti dei propri allievi… una cosa che mi ha molto aiutato”.
Raffaele Genah, già giornalista RAI, lo ricorda come una persona dotata di grande umanità e capace di ascoltare “senza mai allontanarsi dal rigoroso rispetto delle regole imposte dalla religione. Mi restano quelle lunghe chiacchierate che spaziavano dall’attualità agli interrogativi più profondi di fronte a cui anche la religione fatica a trovare risposte. Un uomo buono, profondo, ma anche una persona semplice, che ha amato e onorato profondamente l’intera «sua» Comunità”.
Ascoltando le varie testimonianze, si evince chiaramente che “tutti lo chiamavamo Morè – spiega Shulamith Orvieto, organizzatrice eventi e comunicazione – Una figura coinvolgente, grazie alla quale ho cominciato a diventare più religiosa”. Molti degli uomini lo rammentano come il Morè che ha insegnato loro le preghiere per il Bar Mitzvah – la maggiore età religiosa – ma anche per esser diventato negli anni «uno di famiglia». “Ci sono rimasto in contatto anche quando sono andato via dall’Italia – racconta Franco Pavoncello, Presidente della John Cabot University di Roma – Mi ha sempre colpito la sua bontà, è stato un filo conduttore della Comunità dalla guerra in poi”.
Un mentore, ricordato per la sua umanità, preparazione religiosa, ed intonata voce che lo ha portato a diventare tra i più apprezzati cantori dell’ebraismo romano. “È stato presente alla mia milà (circoncisione) ed a tutte le feste di famiglia. C’era anche quando ho preso la Semikhah al Tempio Maggiore, mi ha dato la sua benedizione – ci dice Rav Jacov Di Segni, Direttore dell’Ufficio Rabbinico della Comunità Ebraica di Roma – Mi ha insegnato molto su come un cantore debba essere. Diceva sempre, a nome del suo maestro Rav David Prato, che se il Rav è la testa della comunità, il Chazàn ne è il cuore, perché con la sua voce deve risvegliare il cuore delle persone”.
Lo stesso ricordo lo ha David Meghnagi, professore di psicologia dinamica e clinica all’Università̀ di Roma Tre, che ha avuto con Rav Della Rocca un “rapporto di grande stima personale e di scambi. È stato uno dei più grandi Chazàn che la Comunità ebraica abbia mai avuto assieme al Rav Eliseo. Aveva una grande semplicità umana”.
Dice il Talmud che il mondo si regge «sul respiro dei bambini che studiano». Allora quei bambini d’allora sono cresciuti con gli insegnamenti di un Rav che ha saputo essere un riferimento per tutti e che ha trasmesso l’ebraismo con dedizione, semplicità, impegno ed amore. Gli stessi attributi con cui i suoi allievi lo hanno descritto e ricordato.