Forse non tutti lo sanno, ma tra le tante regole che disciplinano la vita di un ebreo ce n’è una che dice che è obbligatorio studiare. Da quando? Da quando si è in grado di apprendere qualcosa. Fino a quando? Fino all’ultimo respiro. Non c’è un diritto allo studio, c’è un obbligo allo studio. E questo obbligo allo studio, il talmùd Torà è “kenèghed kullàm”, vale da solo quanto tutti gli altri obblighi. Tutti hanno il dovere di studiare e ciascuno in base alle sue capacità ha quello di insegnare, anche quel poco che sa. Cominciando dai genitori nei confronti dei figli, come viene detto esplicitamente nel brano che è la dichiarazione di identità ebraica, lo Shemà’ Israèl. Quindi se è obbligatorio studiare bisogna attrezzarsi per organizzare luoghi di studio che accolgano studenti dalle età più precoci e a seconda delle loro capacità li forniscano degli strumenti e delle nozioni basilari. Questo è, o dovrebbe essere, lo scopo istituzionale delle scuole ebraiche. Luogo di formazione e trasmissione della conoscenza. E siccome questa conoscenza non è una cultura generica, per quanto bella possa essere, ma è Torà, insegnamento di vita, non è solo la nozione che va trasmessa, insieme al metodo per apprenderla, ma l’esperienza di vita, il comportamento, il modello etico, la divisione e la santificazione del tempo, il senso di comunità. Quindi non solo conoscenza ma coscienza.
La scuola ebraica è il luogo dove si impara o si dovrebbe imparare ad essere ebrei. Cominciando con l’alfabeto ebraico, i rudimenti linguistici, e prendendo subito in mano le pagine che sono alla base della nostra tradizione, la Torà ai suoi commenti. E insieme a questo vivere la socialità ebraica, imparare che ci deve essere moralità nei rapporti tra compagni e con i maestri; studiare la storia; prepararsi allo shabbàt e alle feste.
Il programma c’è ma non è facile realizzarlo. Intanto perché l’educazione è una delle sfide più grandi che l’umanità ha dovuto affrontare dall’inizio della sua storia; poi perché la società con le sue idee e le sue abitudini è spesso antagonista a un’educazione secondo la Torà; poi perché nella stessa comunità non tutti condividono il progetto educativo che una determinata scuola può offrire, c’è chi lo vorrebbe molto più radicale e intensivo e chi invece vorrebbe mettere sempre più a margine l’insegnamento religioso; in ogni caso è impresa difficile trovare insegnanti capaci, che stiano al passo con i progressi della didattica, delle tecniche aggiornate di insegnamento e sappiano affrontare le sfide tecnologiche, in cui molto spesso oggi sono i piccoli studenti ad essere più abili degli stessi insegnanti.
La scuola ebraica non è e non può essere esclusivamente ebraica per quanto riguarda le materie che insegna. C’è lo Stato, che richiede, con logica accettabile, che ogni studente arrivi a possedere strumenti basilari per vivere nella società, linguistici, letterari, scientifici. C’è una lunga tradizione di discussione nella storia ebraica sul bilanciamento delle esigenze tra queste necessità generali di istruzione e l’insegnamento della Torà. Alla fine del XVIII secolo un autorevole rabbino italiano, il modenese Ishmaèl haKohèn (noto come Laudadio Sacerdote) descrisse come aveva funzionato fino a quel momento l’educazione dei bambini e adolescenti ebrei in Italia: in pratica la scuola durava tutto il giorno, con materie “religiose” preponderanti e solo nelle ultime poche ore si studiava l’italiano, la matematica e altre discipline. Ciò non toglie che da queste scuole nell’Ottocento uscirono ebrei italiani patrioti e colti che onorarono con la loro presenza la scena pubblica. L’emancipazione e la fuga precipitosa dai ghetti e da quanto ad essi sembrava collegato, come gli studi religiosi, provocarono una drastica riduzione nell’intensità della formazione religiosa, e laddove fu possibile mantenere scuole ebraiche l’ebraismo ebbe un posto secondario. Dalla seconda metà del secolo scorso la ripresa delle scuole ebraiche in Italia è stata segnata da questo conflitto che da qualche parte ha portato alla fondazione di scuole ebraiche non comunitarie segnate da una decisiva preponderanza di studi religiosi. Questa dinamica non è solo italiana, anzi, quello che qui succede è un fenomeno periferico; dove la presenza ebraica è molto più forte, dallo Stato d’Israele agli Stati Uniti, l’offerta di sistemi educativi ebraici è molto differenziata e polarizzata. Un ebreo romano, abituato a soluzioni di compromesso, se si trasferisce in quei mondi fa fatica a inserirsi nei modelli che gli vengono proposti, che possono essere per lui o troppo religiosi o troppo poco religiosi.
In un paese come l’Italia la scuola ebraica deve essere vista come una ricchezza da tutti, non solo dagli ebrei. La cultura ebraica è stata sempre presente, da millenni, in questa terra, ed è stata esemplare per la sua qualità e per il suo speciale adattamento allo spirito del luogo. In un paese che almeno nominalmente è cristiano e cattolico (non sappiamo ancora per quanto) gli antisemiti a stento tollerano la diversità ebraica; ma le persone di buon senso e minima cultura non dovrebbero fare a meno di capire quale sia l’importanza di mantenere una cultura ebraica per comprendere il senso della loro cultura. A cominciare dalla Bibbia, grande sconosciuta (e tanto bistrattata da citazioni approssimate) che pure è fondamento del cristianesimo e che pochi in Italia, se non solo noi, insegnano ai bambini nella lingua originale e mai in modo “fondamentalista”, ma con un’educazione alla ricerca dei tanti possibili sensi. Un grande paese come l’Italia non può rinunciare alla diversità e alla presenza di chi conserva, tramanda e sviluppa la conoscenza della sua stessa storia.