Agli inizi degli anni ’90 il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano era riuscito ad attivare un progetto ambizioso, affidato a me e a Liliana Picciotto: video-intervistare i sopravvissuti ebrei alle deportazioni dall’Italia nei campi nazisti avvenute tra il 1943 e il 1945. Non si trattava di brevi interviste “giornalistiche”, ma di lunghissime, complesse ed estenuanti inchieste storiche. Alcuni dei reduci, ormai poco più di un centinaio, tranne rarissime eccezioni incominciarono per la prima volta a parlare, soprattutto perché sembrava che, finalmente, la società italiana ora li volesse ascoltare.
Due anni dopo l’inizio del progetto ci rendemmo conto, però, che tra gli intervistati mancavano le vittime della retata del 16 ottobre 1943 a Roma. Era chiaro che per loro, ormai meno di dieci in vita, era ancor più difficile, se non traumatico, rivivere attraverso un racconto dettagliato quella tragedia. Chiedemmo aiuto allora a Settimia Spizzichino, che coraggiosamente si era assunta il compito di rappresentare la “memoria” della Shoah nella capitale. Si rese disponibile, pur con diffidenza. Il risultato fu – e rimane – particolarmente prezioso perché nel periodo della razzia, residente in via della Reginella e ormai ventiduenne, possedeva una buona conoscenza degli abitanti ebrei di tutto il quartiere, quindi fu in grado di descriverci le loro reazioni nel momento degli arresti. Le sue diverse interviste, rilasciate in più luoghi, produssero nuove e inaspettate informazioni sulla retata, sul tempo trascorso al Collegio Militare e, successivamente, sulla sorte delle donne arrestate in quella data e la sperimentazione medica subita da alcune di esse, innanzitutto da lei stessa, che per la prima volta accettò di parlare nel blocco in cui subì tale sperimentazione.
Cercammo di coinvolgere subito altri tre reduci (Lazzaro Anticoli, Angelo e Cesare Efrati), ma non ce la fecero a parlare. Decidemmo allora di ritornare a Milano per provare a sentire la persona che possedeva la più profonda conoscenza della tragedia: Arminio Wachsberger, l’interprete del 16 ottobre, che accettò. Quell’intervista rimane la più precisa descrizione di quello che è avvenuto agli oltre mille ebrei rastrellati quel giorno maledetto. Ci furono, finalmente, chiari aspetti del meccanismo della deportazione fino ad allora poco comprensibili, quali l’evidente mancanza di preparazione delle forze tedesche – fatto che determinò quello che i nazisti ritennero un reale “fallimento” (il piano prevedeva la cattura di circa 8.000 ebrei) –; la nascita di un“auto-soccorso” ebraico, ad opera di uomini coraggiosi quali lo stesso Arminio, fatto che, unito all’aiuto della popolazione italiana cattolica, avrebbe portato a contenere la percentuale di persone deportate dall’Italia (un ebreo su cinque); il percorso del treno fino ad Auschwitz. Diversi anni dopo, intervistando alcuni “salvati”, comprendemmo che Arminio era riuscito a impedire la deportazione di molte persone, fornendo, in qualità di interprete, falsi dati sulla loro “non ebraicità” o sulla loro situazione “speciale” (coniugi di matrimonio misto). Inoltre, ci descrisse l’eroico salvataggio di due bambini: suo nipotino Vittorio Polacco, di due anni, e un bebè, Mario Mieli. Arminio ci parlò anche di un suo compagno di sventura ancora in vita: Lello Di Segni. Ritornammo a Roma, lo rintracciammo e lo filmammo nel suo negozio. La sua testimonianza, con quella di Arminio, ci fornì preziose informazioni sulla sorte del gruppo di ebrei romani che finì nel Lager attivato sulle rovine del ghetto di Varsavia, quasi tutti scomparsi. Lello ci informò, infine, della presenza, a Roma di un altro “16 ottobre”: Sabatino Finzi, ma ci disse che non avrebbe mai e poi mai accettato di parlare, tanto meno di farsi filmare. Dopo vari tentativi di parlare con lui, andati a vuoto, una mattina decisi di presentarmi all’ingresso della sua ditta, alla Magliana. Comparve un uomo imponente, con folti baffi e con fare sospettoso. “Che cosa vuole? Che cosa cerca?” – mi chiese – “Vorrei parlare con il signor Sabatino Finzi. Vengo apposta da Milano, dal Centro di Documentazione Ebraica. La nostra conoscenza della Shoah si basa prevalentemente su documenti e resoconti lasciati da chi l’ha realizzata e da chi è stato a guardare; non abbiamo il racconto di chi l’ha subita. In particolare mancano le testimonianze dei sopravvissuti alla retata del 16 ottobre 1943. Il signor Sabatino è uno di questi, ma fino ad ora non ha risposto alle nostre richieste, quindi mi sono permesso di raggiungerlo”. “Mio fratello Sabatino al momento è assente. Intanto le faccio io delle domande…”. Dopo almeno mezz’ora di interrogatorio, esausto, gli dissi brutalmente: “Signor Sabatino, lei non ha mai avuto un fratello. Aveva solo una sorellina, Amelia, che è stata uccisa all’arrivo a Birkenau con sua mamma Zaira. Se non intende parlare… io rispetto la sua decisione, ma non mi prenda in giro”. “Milanese, hai dimostrato coraggio, e questo mi piace. Entra, e vediamo cosa riusciamo a fare…”. Iniziò un’intervista filmata lunghissima, che sarebbe terminata due anni dopo ad Auschwitz, oltre che un intenso rapporto di amicizia. Preziose si rivelarono soprattutto le informazioni sulla sorte dei “romani” nelle miniere di Jawischowitz, sottocampo di Auschwitz. E Sabatino ci parlò anche di un suo grande amico, Leone Sabatello, ma, ancora una volta, ci assicurò che non ci avrebbe detto nulla, come del resto aveva sempre fatto. Dopo molti tentativi mi aprì la porta di casa “Leoncino”, un uomo massiccio, con un tono di voce turbinoso. Si rivelò da subito una persona di infinita umanità e bontà, e iniziò a raccontare tutto quel che aveva in memoria, lasciando stupefatta anche la moglie, donna straordinaria che gli sedeva accanto. Grazie a lui, alla sua solida identità e al suo attaccamento alla famiglia, capimmo la ragione per cui nemmeno i giovani cercarono di darsi alla fuga. Leoncino, addirittura, confessò che “So’ sceso dal vagone dove c’era mia madre, mio padre, le sorelle, dovevo urinare. Però il treno se n’andava: ho fatto rifermà ’l treno e so’ risalito sul vagone dove c’era i famigliari miei”. Alcuni anni dopo riuscimmo ad incontrare Enzo Camerino, che viveva all’estero. Lui ci descrisse con precisione la meccanica degli arresti in quartieri lontani dall’antico ghetto.
A completarci il quadro della retata furono gli ebrei che la vissero in prima persona, ma che non vennero arrestati il 16 ottobre, bensì nei mesi successivi. Dai loro racconti fu ancor più chiaro il quadro completo della situazione. Molti ebrei non furono catturati perché capirono in tempo quel che stava succedendo e riuscirono a nascondersi, come Giuditta e Silvia Di Veroli, Benedetto Vivanti, Milena Zarfati, Raimondo Di Neris, Leone Di Veroli, Giacomo Moscato, Piero Terracina, o perché avvisati da amici cattolici, come Ester Calò o Lello Perugia. Tutti questi, purtroppo, non trovarono rifugi sicuri come i conventi: alcuni ritornarono nelle proprie abitazioni. Senza mezzi di sostentamento, sarebbero stati comunque catturati.
Da tutte le testimonianze, in ogni caso, emerge un dato sicuro: le vittime della retata furono i più deboli, come gli anziani e le donne, ma soprattutto i bambini, che si credeva non sarebbero mai stati toccati dalla violenza nazista.