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Ultimo numero Novembre – Dicembre 2024

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    Viaggio della memoria: la distanza che separa Auschwitz dal mondo

    Andare ad Auschwitz in inverno ha come primo effetto quello
    di chiarire il termine “sopravvissuto”. Spesso lo si dà per scontato,
    quasi lo si istituzionalizza, abituati ormai a sentirlo nei film o a leggerlo
    sui sottopancia delle interviste. Non è così: non c’è nulla di lasciato al caso
    e ce ne accorgiamo tutti non appena si mette piede fuori dal pullman.

    Tutto è bianco, ma opaco e incorporeo, non si vede nulla a
    cento metri di distanza. La camminata che ci separa da Auschwitz-Birkenau non è
    qualcosa che si dimentica facilmente. Assenza di vita, ecco cos’è: le piante
    che circondano lo sterrato sono secche e il freddo di Cracovia non è minimamente
    paragonabile a ciò che si sente lì. Ti entra nelle ossa e non se ne va.

    Entriamo nel campo, una landa desolata circondata da fili
    spinati, con ogni tanto qualche vedetta di legno. É surreale, se ne accorgono
    anche i ragazzi delle scuole, che si guardano intorno, increduli.

    Lo storico Marcello Pezzetti e la reduce Andra Bucci
    radunano la folla e cominciano a raccontare, davanti a uno dei carri bestiame
    che trasportava uomini, donne e bambini verso l’inferno. Un conto è vederlo in
    televisione, un altro è sentire da un testimone, guardarsi intorno, osservare
    le immagini esplicative portate e mostrate da Pezzetti; in quel momento ci si
    rende conto che è tutto vero. Non perché lo si dubitasse, ma un fatto così
    assurdo può essere davvero reso proprio solo avendo la verità davanti agli
    occhi. É accaduto, quindi può riaccadere.

    Intervistiamo Andra Bucci, una vera forza della natura.
    Intanto il gruppo va, lo guardiamo camminare, da lontano: chi arranca, chi
    muove gli arti per riscaldarli, chi non ce la fa. Coperti a strati, dalla testa
    ai piedi. La mente corre a loro, ai deportati, con il pigiama a righe.
    Denutriti, maltrattati, infreddoliti, devastati nell’animo.

    Continuiamo a camminare, per poi fermarci su uno spiazzale,
    dove continua il racconto storico. Una volta finito, la rappresentanza Rom e
    Sinti canta il proprio inno, poi gli Ebrei i Salmi di David. Sembra “Train
    de Vie”, e capisci perché nel film Shlomo li definiva
    “fratelli”.

    Si va in una baracca. I deportati dormivano su assi di legno
    dove ci sarebbero state al massimo tre persone, invece erano otto, a volte
    anche dieci.

    Ci spostiamo in pullman, pausa pranzo, poi riprendiamo alla
    volta del campo di Auschwitz 1.

    “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.
    Questa l’incommentabile scritta all’entrata.

    Auschwitz 1 è diventata di fatto un museo. Alcune delle
    baracche di mattoni sono state trasformate in esposizioni. Sale con centinaia
    di foto di chi non c’è più, divise, capelli, occhiali, indumenti vari. Birkenau
    era più spoglia, lasciava spazio all’immaginazione. Qui invece la verità arriva
    dritta in faccia. Non si sa se faccia più male questo o l’altro.

    Dopo aver visto tutti gli edifici, c’è la deposizione di una
    corona di fiori. Poi si torna indietro per andare verso l’aeroporto.

    Nell’aria c’è un senso di compassione, di riscatto, di
    voglia di vivere insieme. In aereo si canta, si balla. I Rom-Sinti intonano le
    loro canzoni, accompagnati dal violino, tutti li seguono. Si chiacchiera tra
    sconosciuti, ci si scambiano contatti. La diversità come ricchezza, la vita
    come tesoro, la lezione è stata imparata. A questo serve il Giorno della
    Memoria.

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