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    Trent’anni fa moriva Khomeini, l’Iran rimane in trincea

    “L’America non può fare un cavolo”. Fu ad un linguaggio popolaresco che l’ayatollah Rouhollah Khomeini ricorse nel 1979 per manifestare il suo sostegno alla sfida senza precedenti lanciata da un gruppo di studenti alla prima potenza del mondo, l’assalto e la presa degli ostaggi all’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran. Trent’anni dopo la morte del leader rivoluzionario e fondatore della Repubblica islamica (il 4 giugno 1989), l’antiamericanismo rimane forse l’unica colonna portante superstite dell’ideologia del regime, mentre la società ha preso un indirizzo ben diverso da quello auspicato dall’ ‘Imam’. Nel Paese, in cui il 50 per cento degli oltre 80 milioni di abitanti è nato dopo la morte dell’ayatollah, non è stata realizzata quella comunità islamica moralmente pura che Khomeini aveva promesso al suo ritorno trionfale in patria, nel 1979. L’Iran non è oggi un Paese più sinceramente religioso di quanto non lo fosse ai tempi della monarchia. Mali come droga e prostituzione affliggono anche la Repubblica islamica. Il bando dell’alcol non ha trasformato gli iraniani in un popolo di astemi. La corruzione economica e il nepotismo dilagano. E le disparità sociali aumentano. Nemmeno la profezia di Khomeini si è rivelata del tutto corretta. Con le sanzioni imposte per 40 anni, gli Stati Uniti hanno mostrato di potere in realtà fare molto contro l’Iran, bloccando lo sviluppo di un Paese dalle enormi risorse naturali e potenzialità umane. E l’amministrazione di Donald Trump è arrivata negli ultimi mesi a metterne praticamente in ginocchio l’economia. Ma la Repubblica islamica, che è sopravvissuta e addirittura si è rafforzata proprio grazie alle emergenze (dalla vicenda degli ostaggi, appunto, alla guerra di otto anni con l’Iraq), rimane ferma nello scontro con il ‘Grande Satana’. E lo stesso Trump in poche settimane è passato da affermazioni in cui auspicava un rovesciamento del regime al riconoscimento che il Paese può prosperare anche “con l’attuale dirigenza”. Trent’anni fa milioni di persone invasero le strade di Teheran per i funerali di Khomeini, i più grandi che la Storia ricordi, in una gigantesca manifestazione di lutto spontanea che prese in contropiede anche le autorità. Già dieci anni erano passati dalla caduta dello Shah e solo uno dalla fine della guerra, che aveva lasciato il Paese allo stremo. Le esecuzioni di migliaia di oppositori – in maggior parte ex rivoluzionari laici e marxisti – la repressione di ogni dissenso, le difficoltà economiche, i compromessi che Khomeini, da astuto e cinico leader politico, aveva dovuto accettare per garantire la sopravvivenza del regime, ne facevano ormai una figura ben diversa da quella del profeta senza macchia che ai tempi della rivoluzione aveva promesso agli iraniani “il benessere su questa Terra e nell’aldilà”. Probabilmente quei milioni di iraniani dolenti erano lì per piangere non solo la morte dell’Imam, ma anche del sogno di libertà e felicità che aveva portato con sé. Ma trent’anni dopo due sono le sue eredità che rimangono intatte: una forma di religione che, ben lungi dall’essere un “oppio dei popoli”, si è rivelata una forza rivoluzionaria e antimperialista che ha preso il posto del marxismo nei movimenti anti-americani e anti-israeliani in tutto il Medio Oriente; e, per quanto riguarda l’Iran, l’affermazione di un’indipendenza che ha messo fine alle ingerenze delle grandi potenze durate oltre un secolo. Un nazionalismo che unisce tutti gli iraniani e che nella religione ha trovato una voce per farsi sentire. (ANSA). 

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