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    Le comunità ebraiche e la leadership: storie di autorevolezza e coraggio

    Per la maggior parte della sua storia il popolo ebraico è rimasto privo di uno Stato, in esilio in mezzo a popoli che volevano se non proprio eliminarlo, convertirlo e assimilarlo. Le comunità ebraiche furono il modo in cui si organizzò questa presenza minoritaria. Il loro compito principale e di chi le guidava è sempre stato quello di assicurare la sopravvivenza fisica e spirituale degli ebrei. Ciò significava non solo assicurare loro i servizi economici, sociali, culturali e religiosi, ma anche e forse soprattutto gestire le relazioni con la maggioranza e i poteri che la reggevano, decidere quando resistere e quando cedere, quando restare e quando fuggire, quando pagare e quando ribellarsi; come far apprezzare la propria utilità; spesso scegliere a chi legarsi fra le forze della società o come restare neutrali. Vi sono grandi modelli di questa “politica estera” già nelle Scritture ebraiche: Avraham e i re, Moshé e il Faraone, Daniel e il re di Babilonia, Ester e Mordechai e l’imperatore persiano. Ma tutta la storia ebraica è segnata da questo problema di relazioni: dai viaggi a Roma di Rabban Gamaliel e Rabbi Akiva all’“amicizia” di Jehuda haNassi con vari imperatori narrata dal Talmud, fino ai rapporti del Rambam con il visir d’Egitto e a quelli del Maharal con Rodolfo d’Asburgo o di Itzhak Abravanel con il re del Portogallo Alfonso V.

    Molto più frequentemente i rapporti non erano affatto tranquilli e i leader comunitari dovevano raccogliere tasse forzate, lavoro, o cercare di limitare le stragi, spesso pagando di persona. La storia della Shoah è un esempio paradigmatico, ma non isolato di questi problemi. I nazisti esigevano la presenza di organismi rappresentativi delle comunità ebraiche e i leader dovevano eseguirne gli ordini nella speranza di minimizzare il danno, spesso sacrificandosi per non abbandonare la comunità anche quando avrebbero potuto farlo. In Italia i nomi del rabbino capo di Genova Riccardo Pacifici o del segretario della comunità di Trieste Carlo Morpurgo sono un esempio di questo diffuso eroismo.

    Il fatto che gli ebrei abbiano mantenuto anche nei tempi più difficili leadership comunitarie in grado di dialogare col potere esterno, per criminale che fosse, è stato duramente criticato da Hannah Arendt, ma risponde a una strategia continuata per tutta la diaspora, come spiega il grande storico Yosef Hayim Yerushalmi nel suo libro «Servitori di re e non servitori di servitori» (Giuntina). Le leadership ebraiche si formano secondo regole molto diverse nel tempo, ma per lo più sono selezionate per il livello economico o per il valore degli studi e la capacità di comunicazione. I primi sono a lungo i cosiddetti Hofjuden (ebrei di corte), in grado di influire sui sovrani con il loro potere finanziario. I secondi spesso sono i rabbini, ma nel mondo moderno ne fanno parte anche leader come Chaim Weizmann, grande scienziato, o Theodor Herzl, popolare giornalista. Essi sono comunque caratterizzati da una doppia autorevolezza: la capacità di prendere impegni verso l’esterno e di far rispettare le proprie difficili decisioni anche all’interno della comunità, come quando nel 1960 Ben Gurion decise che Israele doveva normalizzare i rapporti con la Germania e accettò di incontrare il cancelliere Adenauer nonostante l’opposizione popolare. Oggi in un contesto democratico per i leader delle nostre comunità non si presentano più dilemmi così drammatici. Ma ancora l’autorevolezza e il coraggio di prendere decisioni difficili è il requisito essenziale per la “politica estera” ebraica.

    In copertina: David Ben-Gurion e Konrad Adenauer all’Hotel Waldorf Astoria di New York nel 1960

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