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    L’11 settembre è il presente. La lunga guerra non è finita

    Cara Piattelli,

     

    mi hai chiesto di scrivere sull’11 settembre 2001, accolgo l’invito perché Shalom rappresenta la voce della comunità ebraica e questo giorno ha un importante significato per tutti noi. Vuol dire stare dalla parte giusta in tempi in cui l’Occidente sembra aver smarrito il suo senso dell’Essere, libertà e democrazia. È un giro di boa della storia verso un’altra storia legata da un fil rouge di eventi. Sono trascorsi vent’anni, due decenni, quattro lustri, forse la fase più importante della mia vita, di certo l’11 settembre 2001 è il fatto che ha occupato di più il mio interesse, il mio studio, il mio desiderio di conoscere. La cronaca, la storia, il personale romanzo di formazione che è in ognuno di noi.

     

    L’11 settembre del 2001 – quell’immensa voragine aperta al centro di Manhattan, il muro del Pentagono abbattuto, la striscia profonda del volo United 93 nella campagna di Shanksville – è il bagliore gigantesco di una storia che precede i fatti, li accompagna, li alimenta fino alle trame di questi giorni impaginate in cronaca. L’andata e il ritorno dell’America, il vai e vieni della cronaca, la missione di George W. Bush, l’avamposto dell’Occidente a Kabul e, dopo vent’anni, la disastrosa, tragica, fallimentare ritirata di Joe Biden. Un ripiegamento caotico, frettoloso, intriso di paura, dettato dai Talebani, con gli afghani che precipitano mentre si aggrappano agli aerei militari in volo, la strage di Kabul, oltre 200 morti, 13 Marines caduti, con il fianco esposto dall’imperizia ai kamikaze di Isis-K. Due date e una sceneggiatura 11 settembre 2001 – 31 agosto 2021, il sipario si è chiuso con il “The End” più infelice che si potesse immaginare.

     

    Vent’anni fa la mia biografia segnava 33, ero alla mia prima direzione di giornale, non ero padre, avevo una percezione e un metodo di lavoro sulla cronaca che era fatto di immediatezza, surfavo sull’onda degli eventi, li catturavo, raccontavo, titolavo in prima pagina e passavo a un altro flash del notiziario. L’11 settembre del 2001 cambiò tutto. Gli aerei che colpivano come missili le Torri Gemelle spalancarono i cancelli della storia, la “longue durée” si presentò davanti a me con le immagini delle Torri che bruciavano e lo straziante volo di “the falling man”, l’uomo che precipitava nel buco nero dell’America sotto attacco. 

     

    Vent’anni fa eravamo “tutti americani”. Oggi si fa fatica a capire chi lo è davvero. Gli Stati Uniti per la prima volta dall’attacco di Pearl Harbor furono colpiti all’interno dei loro confini. E per la prima volta scattò l’articolo 5 della Nato, quello che impone agli alleati di soccorrere un paese che viene attaccato. Così andammo prima in Afghanistan (2001) e poi in Iraq (2003) e le due campagne non possono essere scisse perché fanno parte della stessa trama dove la storia ha questo inizio: tremila morti sul suolo americano, la reazione di una coalizione di nazioni contro il terrorismo di Al Qaeda e la minaccia dello sterminio di massa. Tutto sembra sospeso, dimenticato, lontano. È un miraggio del deserto, un’illusione, perché l’ondata lunga della storia è qui, ora, presente più che mai. 

     

    Per me furono anni di straordinaria intensità e apprendimento. Viaggiai molto in America, ebbi la fortuna di parlare con alcuni tra i testimoni diretti di quella storia, gli uomini e le donne, i grandi e i piccoli, i noti e gli sconosciuti, coloro che forgiarono le campagne militari e l’idea del “nation building” a Kabul e a Baghdad. Uomini e donne che raccontavano l’enorme sforzo bellico per piegare Al Qaeda e il regime dei Talebani, ma soprattutto davano un senso all’opera in fieri della costruzione di nazioni (l’Afghanistan e l’Iraq) con istituzioni democratiche per uomini liberi dalla dittatura. Osama Bin Laden allora era un fuggitivo, Saddam Hussein era stato catturato il 13 dicembre del 2003, era nascosto in una buca, vicino alla sua città natale, a Tikrit. Saddam era atteso dalla forca, fu condannato a morte e impiccato il 30 Dicembre del 2006. Osama Bin Laden continuò per anni a nascondersi e guidare la guerriglia di Al Qaeda, i missili americani e le squadre speciali lo inseguirono sulle montagne dell’Afghanistan ovunque senza mai colpirlo, ma era solo una questione di tempo, i cattivi nei romanzi muoiono sempre, la sua ora senz’ombra arrivò il 2 maggio del 2011, una squadra speciale dell’esercito americano lo eliminò, era nel suo rifugio di Abbottabad, in Pakistan.

     

    L’eliminazione di Osama Bin Laden fu una possibile “finestra” per l’uscita degli Stati Untiti dalla campagna in Afghanistan, ma Barack Obama non prese quella decisione per una semplice e inesorabile ragione: il ritiro di tutte le truppe sul terreno era impossibile senza far ripiombare il paese nel caos e innescare il ritorno dei Talebani a Kabul. 

     

    Dieci anni dopo, Joe Biden (che espresse dubbi sul blitz per eliminare Osama Bin Laden, un segno premonitore del carattere del futuro “Commander in Chief”) ha preso la decisione e ha spalancato i cancelli del presente a un governo di criminali, terroristi, narcotrafficanti, ricercati dall’Fbi con taglie di milioni di dollari sulla testa. Non un ritiro, ma una fuga, non una vittoria, ma una disfatta. “La debacle di Biden”, come ha titolato l’Economist. 

     

    Nessun presidente ama andare in guerra, George W. Bush inviò i marines alla caccia di Tora Bora perché con le Twin Towers fumanti e il lutto che bruciava non aveva un’altra carta da giocare, la risposta all’11 settembre doveva essere netta e immediata di fronte al popolo americano sotto shock, impaurito e smarrito. Non pensava di restare a lungo, ma il tempo giusto, non una guerra lampo, ma neppure la “lunga guerra”. I piani dei generali e gli obiettivi politici dell’amministrazione si trovarono di fronte alla realtà della guerra asimmetrica, della corruzione, dei clan tribali, di un’economia dipendente dalle coltivazioni di oppio. L’occupazione non poteva essere breve perché la minaccia del terrorismo sugli Stati Uniti – e l’intero Occidente, una scia di attentati e vittime che arriva fino a oggi – era viva e concreta, il fronte della guerra restava aperto perché l’Afghanistan non poteva diventare di nuovo un santuario del terrore come lo fu con Bin Laden e i Talebani. 

     

    Barack Obama pensò di potersi disimpegnare sul terreno, di “alleggerire” le operazioni via terra e “traslocare” la campagna in aria. Così varò una flotta imponente di droni, cambiò la struttura della “killing machine” americana, diminuì i “boots on the ground”, ma senza gli stivali sul terreno e nonostante la lista di uccisioni di terroristi si allungasse (la “killing list” di Obama), l’Afghanistan restò un impegno non archiviabile per il Pentagono e l’amministrazione del premio nobel per la pace. I suoi errori furono grandi e mai stigmatizzati abbastanza, per Obama è sempre valsa una “immunità culturale”, una “safe zone” nelle redazioni dei grandi media, che non ha aiutato alla comprensione storica e strategica della politica americana in Medio Oriente negli ultimi vent’anni. Fu lui ha fermarsi sulla “red line” in Siria contro Assad, favorendo il caos della guerra civile e la nascita di Isis, fu la drastica diminuzione delle truppe in Iraq a far sconfinare le “bande nere” fino alle porte di Baghdad. E in un ribaltone della storia, fu la Russia di Vladimir Putin con le milizie iraniane guidate dal generale Qassem Soleimani (figura chiave di mille trame), le milizie libanesi di Hezbollah, a schiacciare quel clan di criminali e psicopatici. Fu l’orchestra sinfonica  Mariinsky di San Pietroburgo a suonare le note della liberazione nello splendido teatro romano di Palmyra che pochi mesi prima era stato il palcoscenico mondiale delle esecuzioni dell’Isis. Quanti errori alla Casa Bianca. E quanti incroci della storia: Soleimani fu il “master and commander” delle operazioni di Teheran contro gli americani, fu ucciso su ordine di Trump con un missile hellfire a Baghdad il 3 gennaio del 2020. L’onda lunga dell’11 settembre è questa partitura densa e fulminante. 

     

    L’11 settembre è una storia lunga, un’ondata di fatti, eventi, collegamenti, relazioni, amicizie, inimicizie, errori, orrori, atti di eroismo e sacrifici. 

     

    L’America è sempre stata un impero riluttante, incline all’isolamento (George Washington nel suo famoso discorso d’addio del 1796 spiegò quale doveva essere l’impegno dell’America con le altre nazioni: “La grande regola di condotta nei confronti delle nazioni straniere per noi è estendere le nostre relazioni commerciali, avere con loro il minor legame politico possibile”), ma fino al 31 agosto del 2021, il giorno in cui l’ultimo soldato americano, il generale maggiore Chris Donahue, comandante dell’82esima divisione aviotrasportata, è salito sul C-17, aveva sempre cercato una exit strategy onorevole. Ci fu Saigon, certo, la grande sconfitta del Vietnam, un ritiro subito associato da tutti a Kabul, con le immagini degli elicotteri che trasportano il personale diplomatico in fuga. Antony Blinken nelle ore concitate del ritiro ha detto: “Non è Saigon”. Ha ragione, è Kabul, è peggio, perché la fuga americana ha voltato le spalle all’impegno preso vent’anni fa con gli alleati. Perché la Nato esce da questa vicenda profondamente scossa e l’Europa diffidente, rafforzata nella convinzione di doversi dotare di un proprio strumento di difesa, autonomo rispetto alla Casa Bianca che ha deciso quando andare e quando lasciare, con Joe Biden che ha contraddetto tutti i documenti e i discorsi fatti sul “nation building” in Afghanistan. Per cosa eravamo noi a Kabul? Per un’operazione di polizia internazionale? O per dare agli afghani, agli uomini, alle donne, ai bambini, un paese libero e un futuro senza la spada della sharia? È tornato l’Emirato Islamico dell’Afghanistan e il ritiro è un punto di non ritorno, in tutti i sensi. La Casa Bianca a guida democratica si specchia con quella repubblicana che fu di Trump, ma spinge questa tendenza della storia fino all’impossibile, perché coltiva l’illusione del “retrenchment” in un mondo che ha moltiplicato le minacce (la tecnologia disponibile per nuove armi e nuove guerre, a cominciare dalla cyberwarfare), un ritiro dagli impegni presi fatto con una strategia di riduzione del bilancio della Difesa (questo sarà il banco di prova di Biden al Congresso, la sua partita interna) e non solo, perché bisogna tenere d’occhio il ridisegno americano nei forum di cooperazione internazionale, il taglio delle truppe dispiegate all’estero. La missione dell’amministrazione Biden è quella del costo inferiore e dell’impegno ridotto, l’agenda non è più globale ma domestica. Biden parla agli americani (che nel dossier Afghanistan ne bocciano nei sondaggi l’operato da Commander in Chief e non solo) e se il mondo ascolta tanto di guadagnato per la Casa Bianca ma non per gli alleati. 

     

    Fu Trump a sottoscrivere gli accordi di Doha, ma come ha ricordato l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, quell’impegno era sotto la spada di Damocle della reazione militare americana. Con Biden è cambiato tutto, ha annunciato e cambiato le date del ritiro, ha scelto di farlo nella “stagione dei combattimenti” (errore strategico imperdonabile), non ha tenuto in considerazione (e doveva) gli avvisi di chi diceva che l’esercito si sarebbe sciolto e l’avanzata dei Talebani sarebbe stata rapidissima. Alla fine, è stato colto in contropiede da se stesso, la sintesi l’ha fatta Bret Stephens sul New York Times: 

     

    “Biden è diventato l’emblema del momento: testardo ma traballante, ambizioso ma inetto. Sembra essere l’ultima persona in America a rendersi conto che, qualunque siano i meriti teorici della decisione di ritirare le nostre truppe rimanenti dall’Afghanistan, i presupposti militari e di intelligence su cui è stata costruita erano profondamente sbagliati, il modo in cui è stata eseguita è stata un’umiliazione nazionale e un tradimento morale, e il tempismo è stato catastrofico”.

     

    Questo scenario comporta una serie di conseguenze inattese, soprattutto per l’Europa. Che fare? Gli Stati Uniti pensano a una Nato che si schiera contro la Cina e la Russia, l’agenda la detta Washington, ma noi siamo di fronte a rischi e problemi pressanti, l’Africa con i suoi immensi territori disconnessi – il terreno dei gruppi terroristici – è a poche miglia nautiche dall’Italia, la Francia è il nostro partner più preoccupato dall’instabilità africana e dal Vicino Oriente e non a caso Emmanuel Macron e Mario Draghi si sono incontrati a Marsiglia qualche giorno fa, perché l’agenda è pressante, ci sono problemi strategici urgenti da affrontare. Eccola, l’ondata dell’11 settembre, 2001-2021, vent’anni dopo siamo di fronte non alla “coda” di una guerra, ma a un’altra fase della stessa guerra.

     

    Torna la domanda sul taccuino, che fare? Quello che suggerisce Tony Blair e ora affiora sulle labbra dei leader dell’Unione europea che improvvisamente vedono la Nato come un vincolo troppo stretto per funzionare sempre e per tutti: “Penso che non siamo alla fine della Nato, la Nato ha ancora una funzione e un obiettivo molto chiari, ma penso che ci siano diversi interessi che uniscono i Paesi della Nato. E penso che per questo motivo ci sia anche spazio per una cooperazione al di fuori della struttura della Nato”. Dentro. E fuori. Siamo già in un nuovo mondo perché parlarne non è più tabù e rischi del “non fare” sono aumentati in maniera esponenziale, sono a rischio le leadership europee che devono dare risposte per la sicurezza dei propri cittadini oggi e domani.

     

    Il Presidente Biden ha mostrato il suo vero volto isolazionista, ha aperto il vaso di Pandora, il contenitore di tutti i mali che si riversano nel mondo, perché una grande potenza in ritirata incoraggia i suoi nemici all’azione. Gli effetti geopolitici della fuga americana sono enormi: apre uno spazio di manovra per la Cina, rimette in pista la Russia che dall’Afghanistan uscì sconfitta, incoraggia i nemici di Israele a agire, provocare, colpire e nascondersi, mette l’Iran nella condizione di sentirsi al sicuro e procedere senza temere rappresaglie con lo sviluppo del suo piano nucleare, il tragico ritiro deciso da Biden ha reso il mondo più pericoloso. E tutto questo accade mentre al governo di Kabul c’è una banda di ricercati che nega perfino il coinvolgimento di Osama Bin Laden negli attentati dell’11 settembre 2001. Siamo all’epilogo più amaro di questo racconto, al sottosopra dei fatti e del senso, allo stravolgimento della cronaca e ai Talebani che riscrivono la storia, la nostra.

     

    Vent’anni dopo, sta iniziando un altro capitolo di questa storia. L’11 settembre non è il passato, è il presente. La “lunga guerra” non è finita.

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