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    Il governo di cambiamento è pronto. Ma la crisi della politica israeliana non finisce

    La crisi
    post-elettorale di governo in Israele, che in realtà dura da due anni e mezzo e
    da quattro consultazioni elettorali, tutte risultate inutili per la
    formazione di un governo stabile, è arrivata a un passaggio importante. Usando
    per semplicità la terminologia politica italiana: ieri sera, pochi minuti prima
    della scadenza del suo mandato, il presidente incaricato Lapid è
    andato dal Presidente della Repubblica e ha sciolto la riserva,
    annunciandogli di essere in grado di formare un governo di coalizione. Ora c’è
    una settimana di tempo perché il nuovo governo ottenga la fiducia parlamentare.
    Solo dopo questo passaggio sarà legalmente costituito.

    Sarà un governo
    stabile che supererà la grave crisi politica di questi ultimi anni? E’ lecito
    dubitarne. Ci sono tante anomalie in questo nuovo ministero che mostrano come
    le tensioni che non hanno permesso ai partiti di mettersi d’accordo negli
    scorsi anni sono ancora lì, incarnate nella struttura stessa del governo: il
    dubbio è se il lavoro comune della maggioranza riuscirà progressivamente a
    scioglierle o se, come è accaduto nel governo Netanyahu-Ganz uscito un anno fa
    a sorpresa dalle terze elezioni a fila e sciolto dopo pochi mesi, le tensioni
    paralizzeranno il lavoro comune e porteranno prima o poi allo scioglimento del
    governo e ancora a nuove elezioni.

    La prima anomalia, cui
    gli israeliani si sono abituati, ma che per un europeo continua a sembrare
    assai strana, è che questo è un governo a rotazione. Nei patti per la sua
    costituzioni, scritti da legali e regolarmente  firmati come il rogito di
    una vendita immobiliare, c’è scritto che fino a settembre 2023 il primo
    ministro, il ministro della giustizia, degli esteri, degli interni sono certe
    persone e dopo quella data saranno altre, scambiandosi i ruoli come nelle
    vecchie feste da ballo cambiavano le coppie. E’ chiaro che con i ministri
    cambieranno le politiche, anche perché il contratto di governo riguarda molto
    più la distribuzione dei posti che il programma. E’ come se non si fosse
    stabilito un governo ma due, uno dopo l’altro. Questo è già  un fattore di
    tensione, perché chi comanda ora – poniamo – sulla giustizia o sugli esteri ha
    certe idee che cerca di imporre e chi verrà dopo ne ha altre e cercherà dunque
    di frenare i primi per poi far prevalere la sua impostazione. Con il rischio
    poi che il primo governo cerchi di impedire la formazione del secondo
    provocando nuove elezioni.

    La seconda anomalia è
    che questa distribuzione premia al primo turno molto più un piccolo partito
    necessario alla formazione del governo (Yamina, cioè la destra) e molto meno i
    suoi alleati più grandi. In particolare il primo ministro non è Yair Lapid, che
    aveva ricevuto l’incarico come leader del partito di gran lunga maggiore di
    questa maggioranza, Yesh Atid, ma Bennett, leader di Yamina che ha circa
    un terzo dei seggi rispetto al primo. Il governo avrà al suo interno una
    maggioranza di sinistra, ma i posti più importanti all’inizio andranno alla
    destra. Ciò provocherà certamente dei conflitti. Bisogna anche tener conto che,
    a parte la difesa a Gantz e la giustizia a Shaked, i posti chiave andranno a
    politici nuovi e probabilmente in dissenso fra loro: chi gestirà il
    delicatissimo rapporto con gli Stati Uniti, il Primo ministro Bennett o il
    Ministro degli esteri Lapid, entrambi per la prima volta a quel posto? Chi
    gestirà i rapporti col terrorismo e l’Iran, il muscolare Bennett o il
    riflessivo Gantz? Non è chiaro.

    In generale, la
    composizione del governo e estremamente differenziata, e questa è la terza
    anomalia: dovranno convivere forze basate sull’ideologia della destra (Bennett
    e Saar) con forze di estrema sinistra (Meretz e i laboristi), con altre forze
    di centrosinistra (Lapid  e Gantz); nella maggioranza ci saranno
    nazionalisti ebrei (la destra e anche Lieberman) e per la prima volta da
    decenni anche nazionalisti arabi legati alla Fratellanza Musulmana; forze
    legate all’impostazione religiosa (gli arabi e in parte Bennett) e altre
    decisamente antireligiose (Meretz, Lapid, Lieberman), forze che difendono
    l’attivismo giudiziario della Corte Suprema e forze che lo avversano con
    energia, amici degli insediamenti oltre la linea verde e nemici giurati,
    fautori della legge e dell’ordine e sostenitori della tolleranza per
    l’illegalismo sistematico dei beduini. Difficile che un’alleanza del genere sia
    in grado di decidere qualcosa di significativo senza dividersi.

    Vi è un altro aspetto
    che rende dubbia la sopravvivenza del nuovo governo. Sommando gli eletti dei
    partiti che hanno deciso di sostenerlo, si arriva esattamente alla maggioranza
    richiesta, 61 voti su 120 deputati. Ma già uno e forse due dei rappresentanti
    di Yamina hanno segnalato la loro indisponibilità. Dunque il rischio di perdere
    qualunque votazione o di veder prevalere maggioranze diverse da quella di
    governo: per esempio su temi militari, di sicurezza e degli insediamenti vi è
    una maggioranza di destra che include alcune forze di governo e l’opposizione
    del  Likud e dei sionisti religiosi, ma esclude arabi e sinistra che sta
    al governo. Il risultato sarebbe una crisi politica grave.

    Infine bisogna tener conto
    che settori politici e culturali importanti della società israeliana sono non
    solo esclusi, ma sostanzialmente ostracizzati dalla maggioranza entrante:
    innanzitutto i charedim, che sono il 15 per cento degli elettori; poi il Likud,
    che ne rappresenta il 25 per cento. Entrambi parlano di tradimento di Bennett e
    Saar e meditano la rivincita: faranno un’opposizione dura alla Knesset e nel
    paese Insomma il governo è cambiato, ma la crisi del sistema politico
    israeliano purtroppo probabilmente no.

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