Torna a salire la pressione sul leader laburista britannico Jeremy Corbyn sul dossier antisemitismo, sull’onda di nuove accuse rivolte a una parte della base della sinistra più militante che lo sostiene. L’ultima bufera è stata innescata sulla questione del nuovo codice approvato dal Comitato esecutivo nazionale del Labour per contrastare e punire più severamente ogni comportamento antisemita. Codice in cui si riprende la definizione internazionale di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), ma non tutti gli esempi pratici che essa comprende: in particolare su certe forme di critica radicale e delegittimazione dello Stato d’Israele. Una mancanza che ha provocato reazioni indignate da parte di varie organizzazioni-guida della comunità ebraica britannica, di alcuni deputati ebrei, di oppositori interni ed esterni di Corbyn, fino a indurre lo stesso vice-leader laburista, Tom Watson, a denunciare ieri in un tweet il rischio che il partito possa precipitare “in un vortice di eterna vergogna” se non affronta il nodo. Alcuni iscritti vicini a Corbyn hanno da parte loro respinto le accuse come forzature strumentali e uno di essi, componente del Comitato esecutivo nazionale, è arrivato a dire di non voler “prendere lezioni” da rappresentanti di sigle mainstream della comunità ebraica bollate come covi di “fanatici supporter di Donald Trump”. Mentre un altro attivista, George McManus, è stato oggi immediatamente sospeso dal partito e messo sotto inchiesta dopo aver rinfacciato a Watson contributi ricevuti da un donatore ebreo e averli paragonati ai “30 denari di Giuda”. Toni da cui Jeremy Corbyn ha preso apertamente le distanze in un video, rinnovando le scuse per qualunque offesa arrecata agli ebrei e ribadendo la promessa di tolleranza zero sul piano disciplinare contro ogni traccia d’antisemitismo. Ma il messaggio non è per ora bastato a calmare le acque, né in seno al partito, né da parte dei presidenti del Board of Deputies of British Jews e del Jewish Leadership Council, Marie van der Zyl e Jonathan Goldstein, che hanno chiesto al leader laburista “fatti e non parole”. Non senza sollecitarlo a una sorta di abiura della sua stessa storia personale, definita “problematica”, di esponente storico della sinistra radicale e sostenitore della causa palestinese.