Sulla scia degli accordi di Abramo, io e mio marito decidiamo di prendere il volo e andare a Dubai. Ci ritroviamo in una città avveniristica tra Blade Runner e un immenso Luna Park, venuta su in 50 anni dal deserto, che vanta il più alto grattacielo del mondo, il Burj Khalifa, ma soprattutto che ospita l’Expo 2020 dal titolo “Connettere le menti e creare il futuro”. I nostri obiettivi sono chiari, visita della città e, ovviamente, del Padiglione Israele. Per rispettare la kasherut, ma non destare sospetti, ordiniamo un pasto vegano a bordo della compagnia Emirates. Come tutti i pasti in aereo direi che è nello standard, forse pure un po’ peggio, riso con fagioli e mais conditi con pomodoro e pezzettini di peperone. Ma tant’è, la kasherut è salva e mio marito è soddisfatto. Arriviamo in albergo che si trova downtown su una sorta di raccordo anulare o tangenziale est dei ricchi per questo molto più rumorosa di quella nostrana perché qui ci corrono Ferrari e Lamborghini.
La mattina ci dirigiamo alla Dubai Mall, famosa per ospitare un immenso acquario oltre che negozi di tutti i tipi e per tasche capienti. E qui arriva la prima sorpresa: sentiamo parlare ebraico ovunque. Siamo nel mezzo di un vero e proprio boom turistico, è pienissimo di israeliani, gli Emirati Arabi sono una delle mete più richieste. Dubai è a sole tre ore da Tel Aviv, la stessa distanza di Roma, ci sono 4-5 linee aeree collegate, rispetto alla pandemia è rimasta sempre aperta e non chiusa come l’Europa. È considerata come l’America in Medio Oriente, una sorta di Las Vegas nel deserto arabico. Metteteci anche che da noi è inverno e qui invece siamo in piena stagione turistica e il gioco è fatto. Da novembre ad aprile, non c’è storia, gli israeliani andranno a Dubai, poi magari quando il clima diventerà rovente, si dirigeranno da noi. Impossibile contenere la sorpresa così chiedo in inglese ad un gruppo di giovani coppie con passeggini (altro che culle vuote come in Italia) se sono israeliani, in realtà già lo so, voglio solo attaccare bottone, ma questi mi guardano sulla difensiva e mio marito mi intima di lasciarli in pace perché “si sono imbruttiti”. Deduco che apostrofarli in inglese non sia il massimo, ma il mio ebraico si ferma a Shalom e Boker Tov e il gruppo di giovani non capisce la curiosità da parte di un’europea. “Ma che mi hanno preso per un’antisemita?”, chiedo a mio marito che alza le spalle come a dire, alle volte sei incorreggibile.
Da quel momento, ogni volta che incrocio gli israeliani, trattengo la soddisfazione di vederli in giro per Dubai e di pensare che l’accordo di Abramo funzioni veramente. La sera in crociera incontriamo sul pulmino una coppia simpatica alla quale invece di goodnight avrei voluto augurare Laila Tov, ovvero buonanotte, ma mi trattengo anche per lo sguardo severo del marito che nei giorni a venire romperà gli indugi e si metterà, lui sì, a scambiare qualche parola di ebraico con gli israeliani che incontra, conversazione che poi finirà in inglese perché così capiamo meglio tutti, ovvero anche anì, ovvero io.
Mio marito riesce a rispettare la kasherut per tutto il viaggio grazie ai vegetariani e ai vegani che ormai hanno conquistato il mondo sia alla cena sulla crociera, sia a quella nel deserto dove incontriamo un altro gruppo israeliano ai go kart, postazione molto turistica e rumorosa, non proprio in linea con lo spirito solitario del luogo almeno nel nostro immaginario perché la guida pakistana ci informa che durante la stagione, ovvero da novembre ad aprile, gli abitanti di Dubai vanno nel deserto a fare le cosiddette scampagnate e i barbecue. Insomma, il deserto come i castelli romani.
Finalmente arriva il giorno dell’Expo e cerchiamo al di fuori la bandiera israeliana che si trova accanto a quella italiana, la giornata, ci diciamo, inizia con buoni auspici. Abbiamo un brivido di emozione a pensare che potremmo visitare il padiglione israeliano. Ma prima… ebbene prima ci perdiamo in mille altri padiglioni perché è talmente grande e bello che vorremmo visitarli tutti. “Almeno quello della Libia, me lo fai vedere?”, mi chiede mio marito malgrado io mostri l’orologio perché a quello israeliano abbiamo un appuntamento e lui lo sa. Ma tant’è il suo luogo di nascita, Tripoli bel suol d’amore, non si discute e andiamo prima a quello della Libia perché è sulla strada. È uno di quei padiglioni minori dove non c’è nulla tranne il plastico dell’arco trionfale di Marco Aurelio e un video con i luoghi tipici e la scritta Libia con cui immortalo mio marito in una delle tante fotografie che scatteremo durante l’Expo intasando la memoria del cellulare.
Visitiamo quello russo, quello algerino, carino con il suk, quello marocchino, molto bello, dove alla fine a metterci il timbro incontriamo una ragazza italo-marocchina che con accento ferrarese ci mette subito in guardia sul padiglione italiano: “mi aspettavo qualcosa di più dal mio paese”. Le chiediamo se ha visitato il padiglione israeliano, ma lei ci dice che non l’ha fatto e non lo farà. “Perché tra gli islamici e gli ebrei non si va molto d’accordo”, mi risponde, vorrei replicare che in Israele vivono due milioni di musulmani, ma è tardi, dico soltanto che noi ci andremo. Anche perché dopo tremilacinquecento padiglioni, ancora non abbiamo visto né quello israeliano, né quello italiano che hanno almeno il vantaggio di essere uno accanto all’altro. Riprendo mio marito per i capelli che vorrebbe andare a vedere il Tagikistan, mi pentirò in seguito perché tutti mi diranno che è bellissimo “ma come non sei andata a vedere il Tagikistan?”. Pausa, andiamo a mangiare al padiglione degli Stati Uniti una bagel con cream cheese e salmone, il formaggio spalmabile che come ha già scritto su Shalom non si trova in America (https://www.shalom.it/blog/news/new-york-in-carenza-di-formaggio-spalmabile-negozi-di-bagels) ma a Dubai sì e la kasherut è di nuovo salva anche se ho trasformato mio marito in un ashkenazita.
Ma ci dobbiamo affrettare verso il padiglione italiano. La fila al di fuori si fa sotto il sole, incontriamo anche qui una coppia di giovani israeliani con cui parliamo, sono contenti di stare a Dubai, mentre lei ci racconta che l’ultima volta che è stata a Roma è rimasta scontenta dai troppi turisti. Lo dico sempre che il limoncello dentro lo stivale ci distruggerà. La struttura sembra l’aeroporto di Malpensa, le tende a striscioline di plastica del baretto anni ’70, non ci piace la costruzione Nuraghe fuori e la riproduzione del Pantheon dentro con tanti piccoli schermi che non fanno onore ai video di Salvatores, ma nemmeno la testa del David a grandezza naturale senza il corpo per evitare la nudità e non suscitare scandalo in un paese arabo o i mosaici che più che le chiese di Ravenna ricordano un negozio di Versace. Insomma, una delusione. “Andiamo in Eretz”, mi suggerisce mio marito e finalmente ci dirigiamo verso il padiglione israeliano che ormai mi sembra diventato la terra promessa, tanto per citare Eros Ramazzotti.
FINE PRIMA PUNTATA… CONTINUA…
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