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    Da Kiev il Rabbino Markovitch: “Ci prepariamo al peggio. Restiamo qui per aiutare i più deboli”

    L’Ucraina è sotto attacco dalle prime ore dell’alba. Esplosioni sono in corso in tutto il paese, inclusa la capitale. I cieli sono chiusi e i treni hanno smesso di viaggiare. Il rabbino Jonathan B Markovitch (54 anni) e sua moglie Inna (52), in collegamento da Kiev con la stampa in Israele, raccontano l’atmosfera di crescente preoccupazione tra i membri della comunità ebraica locale.

     

    “Il risveglio è stato spaventoso – raccontano -. Alle 5 del mattino il suono flebile delle sirene era appena percettibile. Quello dei telefonini era più insistente. Erano gli amici che chiamavano per avere notizie. Abbiamo visto del fumo, era l’esplosione all’aeroporto. Siamo preoccupati perché non ci sono infrastrutture adeguate qui, non ci sono rifugi. L’unica possibilità è raggiungere le stazioni della metropolitana, per chi ne ha una vicino”.

     

    Da Kiev – che ha una comunità ebraica di circa 25 mila individui – molti ebrei sono già andati via, nei giorni scorsi. Alcuni verso l’Europa. Quelli con il passaporto israeliano hanno accolto i ripetuti inviti del Ministero degli Affari Esteri di Gerusalemme e si sono diretti in Israele. “Sono riusciti a partire, nei giorni scorsi, i giovani e i benestanti – spiegano Rabbi Markovitch e Inna, in collegamento Zoom -, cioè le persone che possono permettersi di affrontare le sfide di una vita incerta lontano da casa. Gli anziani, i malati e i meno facoltosi sono rimasti bloccati qui. E alle loro debolezze, si aggiunge adesso quella psicologica. Noi siamo qui per loro. Non li possiamo abbandonare”.

     

    Affacciati dal ventunesimo piano dell’edificio in cui vivono, in centro a Kiev, le strade appaiono deserte. Qualcuno si dirige verso un supermercato aperto ma con pochissimi clienti. Pochissime anche le auto in transito, ma qualcuna inizia a incolonnarsi ai distributori di benzina. Le vie che lasciano la città invece sono congestionate. È ormai impossibile percorrerle. A casa Markovitch ci sono anche il figlio Rabbi Ariel (30 anni), sua moglie Cherry (27) e i loro tre bambini. Hanno preparato le valigie, quasi più come gesto automatico. Per il momento la fuga non è un’opzione percorribile. Guidare fino al confine, in questo momento, non è più consigliabile. “Solo chi è partito prima delle 6 del mattino – spiegano i ragazzi – ha potuto lasciare l’Ucraina. Chi si è mosso dopo, è tuttora bloccato nel traffico”.

     

    In preparazione al peggio, da giorni i Markovitch si sono preoccupati di accumulare negli spazi del Kiev Jewish Center, 6 tonnellate di cibo e 60 materassi. Il seminterrato della sinagoga dà la sensazione del rifugio, pur non essendolo. La gente si sta già raccogliendo nel tempio per reagire alla paura con la solidarietà. “Il problema più urgente adesso – sottolinea Rabbi Markovitch – è la sicurezza. Oggi gli agenti non si sono presentati e un’altra società ci ha chiesto il doppio dei soldi. Temiamo aggressioni antisemite o da parte di disperati o di delinquenti. Si è sparsa la voce che abbiamo scorte considerevoli di cibo e se la polizia dovesse collassare potrebbe esplodere il caos”. La coppia racconta che circolano voci che Putin abbia dichiarato che non saranno sganciate bombe sui civili, ma solo su porti e aeroporti. “Ma di questi tempi le fake news dilagano – si rammaricano i due – e noi non sappiamo a cosa credere”.

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