11 settembre 2001: una giornata soleggiata, tranquilla, New York si muove veloce, la città che non dorme mai. Ma per l’America, quell’11 settembre resterà per sempre un giorno pieno di dolore. Il giorno in cui quattro attacchi terroristici cambiarono la storia degli Stati Uniti d’America e di tutto il mondo. Una nube di fumo copre la città, tra i pianti disperati della gente e la paura di essere in una guerra. C’è un ragazzo, un giovane studente della Columbia University che corre lontano da quello scenario apocalittico: è Alain Anticoli. Vent’anni dopo l’attacco terroristico, Alain, ha condiviso con Shalom i suoi ricordi, di quell’evento che colpì l’America dritta al cuore.
Cosa ricordi di quel giorno?
Ricordo moltissimo, mi trovavo a New York per un master in legge alla Columbia University. Io abitavo a Chambers Street, nel Financial District. Ero in un condominio molto alto, che affacciava proprio sulle Twin Towers. Ricordo che ero in doccia, erano circa le nove del mattino, e uscito dalla doccia ho sentito un grosso frastuono, ma non avevo idea di cosa fosse. Mi affaccio dalla finestra e vedo una vera voragine all’interno delle due torri. Non ero spaventato, non avevo ben capito cosa stesse succedendo, ho dunque acceso la televisione ma nessun notiziario dava informazioni in merito. Così ho chiamato mia madre a Roma, si trovava al Pitigliani per una lezione, tranquillizzandola prima qualora avesse sentito qualcosa, visto che abitavo a ridosso delle torri gemelle. Per curiosità, mi sposto quindi verso il terrazzo condominiale per capire cosa stesse accadendo, e appena apro l’ascensore vedo una donna piangere disperatamente con un bambino piccolo. Lì mi sono spaventato, mi sono reso conto che la cosa era grave. Avevo un’amica, Daniela Lattes, che a quei tempi viveva a Washington, mentre eravamo al telefono mi dice: “il pentagono è stato attaccato”.
Cosa hai fatto dopo aver realizzato ciò che stava accadendo?
Mentre guardavo dalla finestra quella grossa voragine, ho visto il secondo aereo infilarsi della torre come un coltello in panetto di burro, da lì è stato tutto chiaro. Fino al 2001 gli americani pensavano di essere una nazione inattaccabile, da lì forse tutto è cambiato. La cosa più straziante che ricordo è stata vedere la torre crollare sotto centinaia di persone. Completamente sepolti dalle macerie. Io ero dall’altra parte della strada, ed è stata un’esperienza che ancora oggi definisco terrificante. Dopo il crollo della seconda torre, ho visto una nube nera di fumo avvolgere il mio palazzo. Una nuvola nera di fumo che avviluppava la città. Nera come la notte A questo punto, su consiglio di mia sorella, sono scappato. Ho preso una borsa, ci ho messo all’interno il passaporto, un pacco di biscotti, le chiavi di casa e una bottiglia di acqua, e sono corso via a piedi. L’unica “nota positiva” che ricordo particolarmente, era il fatto che alla giornata era particolarmente bella e soleggiata e il vento spirava da ovest verso est, dunque, essendo le Twin Towers ad est rispetto a me, la nuvola cominciava a spostarsi verso Brooklyn permettendomi di uscire, per dirigermi verso la West Side Avenue. Ricordo i palazzi distrutti, uno scenario delirante intorno a me. Sono riuscito a contattare i miei genitori per tranquillizzarli. Avevo degli amici ebrei di Milano che mi hanno ospitato, dormivo per terra in questo appartamento minuscolo, finché la Columbia non mi ha dato un appartamento nel Campus dell’università. Non avevo più nulla, e l’università mi ha ricomprato ogni cosa. Ricordo particolarmente, una scena quasi da film, le persone tornavano a casa con in mano un sacco dell’immondizia e avevamo quindici minuti per tornare a casa e prendere alcune delle nostre cose rimaste. Lì ci hanno messo in un camioncino senza finestre, come se non volessero che vedevamo la situazione intorno a noi. Siamo arrivati al Ground Zero, e un militare mi ha scortato verso casa, non avevo idea di cosa prendere, ero nella confusione più totale. Dalle finestre si vedeva uno scenario pauroso: macerie, odore di carne bruciata, e rumore assordante.
Che impatto ha avuto, dal tuo punto di vista, l’attacco sulle comunità ebraiche locali?
A New York gli ebrei sono parte integrante della città, tutti sono stati colpiti ugualmente. I newyorkesi però sono molto resilienti, la città si è ripresa a 360 gradi in maniera molto rapida nonostante la grande tragedia. Gli americani, non erano mai stati attaccati prima di quel momento, è stato un impatto forte, il fatto di essere stati attaccati nel cuore di New York è stata una macchia nell’orgoglio americano. Si sono ripresi tutti velocemente. In America è difficile dividere gli ebrei dalla comunità, è una situazione diversa rispetto all’Europa. Gli ebrei sono parte della cultura newyorkese, molte parole in inglese provengono dall’Yiddish. Di conseguenza credo che l’impatto sia stato uguale per gli americani e per gli ebrei americani.
Che cosa resta di questa memoria oggi? Soprattutto ora cui siamo abituati a vedere queste catastrofi in grande scala, purtroppo spesso?
Ovviamente è un trauma per tutti. Per me doppiamente, visto che ho assistito all’attacco terroristico nella sinagoga di Roma il 9 ottobre del 1982. Ero solo un bambino, ero lì insieme a mio cugino, e non riuscivo a capire perché degli uomini volessero far del male a me, che ero un bambino italiano. Resta un ricordo doloroso, è difficile conviverci ma bisogna parlarne. Non mi viene una risposta precisa, ricordo solo di aver perso tutto quel giorno, la mia casa, ogni cosa. Ho sempre pensato che l’America fosse il luogo più sicuro del mondo, nonostante ciò amo viverci, amo il modo in cui mi sento libero di essere ebreo lì. Il trauma è stato fondamentalmente sentirsi attaccati nel luogo più sicuro del mondo: l’America. Sono andato via per un periodo da New York, ma poi sono tornato.