Il risultato elettorale dello scorso 5 novembre, che ha visto Donald Trump trionfare nettamente sull’attuale vicepresidente Kamala Harris, rappresenta non solo un cambio di leadership, ma un profondo mutamento che sta ridefinendo le fondamenta della politica americana e delle sue alleanze internazionali. Per comprendere appieno le implicazioni di questo scenario sul panorama politico globale, sulle relazioni tra Stati Uniti e Israele e sugli equilibri precari in Medio Oriente, Shalom ha intervistato Maurizio Molinari, già Direttore de La Stampa e de La Repubblica.
Quali fattori chiave hanno contribuito alla vittoria di Donald Trump in queste elezioni e come riflettono il clima politico e sociale attuale negli Stati Uniti?
Trump ha vinto perché ha costruito un programma contro l’inflazione, contro gli immigrati illegali e contro i conflitti infiniti. Su questa base ha costruito un movimento che si riconosce in lui e ha dimensioni assai più ampie dei conservatori e repubblicani includendo indipendenti, libertari, persone che in genere non votano ed anche una minoranza significativa di democratici. È la nascita di una nuova coalizione elettorale che spiega l’essere riuscito anche a vincere il voto popolare. È l’America che cambia volto, si ridefinisce ed obbliga alleati ed avversari a fare i conti con tali trasformazioni.
La comunità ebraica americana ha in gran parte sostenuto Kamala Harris, nonostante le ambiguità percepite riguardo alle sue posizioni su Israele. Quali elementi possono spiegare questa scelta?
In Pennsylvania il voto ebraico ha aiutato Trump a prevalere e nello Stato di New York ha raccolto percentuali che non si registravano dai tempi di Reagan: a New York City ben il 43% degli ebrei ha votato per lui. Non c’è dubbio che gli ebrei americani sono, e restano, in gran parte democratici, ma ciò non toglie che un numero significativo questa volta ha voltato le spalle a Kamala Harris in ragione della percezione che l’amministrazione Biden è stata ondeggiante sul conflitto in Medio Oriente e soprattutto in America non ha fatto abbastanza contro un antisemitismo senza precedenti dal 1945.
Nel contesto di instabilità globale che stiamo vivendo, esiste il rischio di un indebolimento o di una ridefinizione dei rapporti tra Stati Uniti e Israele? Quali fattori potrebbero incidere maggiormente su questa relazione?
Siamo in una stagione di accelerazione della Storia, gli equilibri globali si stanno ridefinendo e il maggiore conflitto in corso è quello che oppone autocrazie – Russia, Cina, Iran e Nord Corea – alle democrazie. In questa cornice Israele appartiene al campo delle democrazie, guidato dagli Stati Uniti. Questo legame è solido e resterà tale a prescindere dal nome del presidente Usa perché il 72% degli americani – ultimi sondaggi – sostiene Israele in quanto è, appunto, una democrazia. Ciò non significa che non possono esserci dei disaccordi: Reagan si oppose al raid sulla centrale nucleare di Osirak da parte di Begin, per non parlare dei forti disaccordi Carter-Begin, Obama-Netanyahu e Biden-Netanyahu. Ma la direzione di marcia resta la stessa: rafforzare il campo delle democrazie. Ecco perché l’ostacolo per entrambi oggi in Medio Oriente è l’Iran che sostiene gruppi terroristici e persegue la distruzione di Israele.
La vittoria di Trump potrebbe avere ripercussioni significative sull’equilibrio e sui conflitti in Medio Oriente. In che modo le sue politiche potrebbero influenzare le dinamiche regionali e il futuro delle attuali tensioni?
Trump ha promesso agli americani la fine di tutti i conflitti. Ciò significa che in Medio Oriente tenterà di arrivare in tempi rapidi alla liberazione degli ostaggi in mano a Hamas per ottenere da Israele il cessate il fuoco a Gaza così come il ritiro di Hezbollah oltre il Litani per ottenere da Israele la fine delle operazioni in Libano del Sud. Poi resterà il nodo dell’Iran e credo che Trump sia lavorando su questo fronte anche perché l’obiettivo vero, strategico, che lui ha è siglare l’intesa di pace fra Arabia Saudita ed Israele per completare gli Accordi di Abramo al fine di creare una nuova dinamica in Medio Oriente. A favore di prosperità e sicurezza.