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    Mondo

    La lobby americana anti-Israele al Congresso e nelle Università

    Negli USA esiste da sempre un vero gruppo di pressione e non è quello “Jewish”

    C’era una volta, negli USA, la cosiddetta Jewish Lobby, la “lobby ebraica”. Ma la premessa favolistica è d’obbligo. Infatti non è mai esistita, se non nei peggiori e più tradizionali luoghi comuni diffusi da non pochi corrispondenti della grande stampa e delle TV, e comunque trasformata in materia di fede grazie a tutto ciò che fu conosciuto e riconosciuto come “stupidità di sinistra” già al tempo della Guerra dei sei giorni e poi nei decenni post-Sessantotto. Strumento di propaganda antiebraica finché furono in vita l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia, utilissimo anche per i peggiori regimi arabi feudali o nazional-fascisti fornitori di ideologie e di petrolio. Da molti mesi i principali quotidiani liberal della East Coast come anche di tutta l’America che comanda davvero da Chicago alla California, dunque la tradizione “bianca, anglosassone, protestante” cioè WASP, aprono in prima pagina con foto da Gaza giustamente scioccanti. Perciò nessuno dovrebbe stupirsi se l’orientamento di quelli che contano, votano e decidono ha virato in senso apertamente anti-Israele. È il nuovo pensiero unico, e a confortarlo e sostenerlo non potevano mancare, e infatti non mancano, gli ebrei che si adeguano. Sempre in prima fila e sempre evidenziati da cartelli e stelle a sei punte, si sono affrettati a procurarsi un posto nelle tende dei campus accanto alle bandiere ormai celebrate dei cosiddetti pro-Pal. Mentre altri ragazzi e professori con o senza kippà restavano a casa, vivamente sconsigliati dal recarsi nelle aule di università prestigiose per premi Nobel (spesso ebrei) e assai ben finanziate con il sostegno di alumni ebrei pure loro, i quali forti di lauree importanti hanno fatto fortuna trasformandosi in donors devoti e fedelissimi. Francamente tutto ciò non stupisce, e senza azzardare paragoni sconfortanti si possono evocare vicende già accadute durante gli anni Trenta del secolo passato. Un paragone che tuttavia non spiega nulla, poiché certo non c’erano ebrei nei picchetti berlinesi delle SS. La perplessità assoluta dovrebbe nascere invece, forse, di fronte al silenzio apparentemente inesplicabile della più grande collettività ebraica della diaspora. E per le reazioni flebili, al limite della inconsistenza. Probabilmente saremo smentiti. Magari. Nel solo Stato di New York gli ebrei sono duemilioniduecentomila, e complessivamente negli USA circa 7.6 milioni ovvero il 2.4% della popolazione. Come sempre c’è dietro una storia, e occorre almeno accennarla. Arrivando in un Paese di immigrati, gli ebrei dell’est russo e polacco avevano lasciato dietro di sé il nulla. Per tutti gli altri, e soprattutto gli italiani e gli irlandesi, c’era invece una terra d’origine e una vera patria. Esattamente ciò che di nuovo accadde anche negli anni della guerra fredda, quando gli ebrei arrivarono a centinaia di migliaia negli States. L’Unione Sovietica si era infatti arresa alla campagna Scelach et amì/Lascia andare il mio popolo lanciata dai movimenti studenteschi ebraici in Europa e nel mondo. Non tutti scelsero la terra dei padri. Israele per la diaspora nordamericana non è baluardo né certezza. Se ne avvertiva e se ne sospetta tuttora la possibile precarietà. Tutti sapevano fin dal tempo della crisi di Suez, era il 1956, che gli interessi dello Stato ebraico non coincidono con quelli strategici di Washington e che la vera lobby, quella del petrolio, orienta la politica estera con il sostegno dei regimi arabi e musulmani. Come si è visto con chiarezza quando la vendetta per la distruzione delle Twin Towers colpì l’Afghanistan dei talebani, colpevoli all’epoca soltanto di vuota propaganda antioccidentale e di ospitare il clan miliardario degli esiliati arabi a marchio Osama bin Laden. Gli ebrei americani soffrono ormai di una sorta di ansia esistenziale, si sentono indifesi. Il nuovo islamismo made in USA appare invece fortemente consapevole di essere sostenuto da una massa di 1.500 milioni di individui in decine di paesi. Certamente non è condizionato dall’eredità del tempo degli schiavi, e quindi le attuali ondate di cortei antiebraici-antisionisti hanno un background ben diverso rispetto alle provocazioni isolate dei Black Panthers e dei Black Muslims nei tardi anni Sessanta.
    L’antisemitismo è devastante, è un fiume sotterraneo, carsico, che emerge in superficie quando le circostanze storiche o sociali sembrano in qualche modo legittimarlo. Così affermano personalità molto autorevoli della politica e della cultura. Ma si dovrebbe ormai sostituire il termine “antisemitismo” con la locuzione “odio antiebraico”, soprattutto per non dover ascoltare la solita e abusata litania: “anche gli arabi sono semiti”. Il problema ormai nasce nell’Islam collettivo, dall’Atlantico fino al Pacifico e attraversa l’Iran terra d’origine, per etimologia universalmente accettata, dei cosiddetti ariani. Peraltro, in Italia, due presidenti della nostra Repubblica nata dalla Resistenza (quella unica e vera) hanno detto senza ambiguità che antisionismo equivale esattamente ad antisemitismo. Di fronte a certi striscioni visti nelle piazze occorre ribadire l’assioma, finché si è in tempo.

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