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    Significati e spiegazioni della festa di Pèsach

    Nel Mishnè Torà (Hilkhòt Zemanìm, 7:1) Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) scrive: “È una mitzvà prescrittiva della Torà raccontare i miracoli e i portenti che furono fatti ai nostri antenati in Egitto nella notte del 15 di Nissàn, come è detto: “Ricorda questo giorno nel quale siete usciti dall’Egitto” (Shemòt, 13:3) cosi come è detto «Ricorda il giorno del sabato» (Shemòt, 20:8). E da dove sappiamo che si tratta della notte del 15 di Nissàn? Lo sappiamo da dove viene insegnato: «E lo racconterai a tuo figlio in quel giorno dicendo proprio per questo…»(Shemòt, 13:8) che significa [la sera] quando hai davanti a te la matzà (pane azzimo) e il maròr (erba amara). E si [è obbligati a raccontare i miracoli di Pèsach] anche se non si hanno figli. Anche i grandi chakhamìm (sapienti) sono obbligati a raccontare dell’uscita dall’Egitto ed è cosa lodevole prolungarsi a raccontare quello che avvenne”.  

    Molti commentatori chiedono per quale motivo il Maimonide scrive che la mitzvà di ricordare il giorno dell’uscita dall’Egitto è simile a quella di ricordare il giorno del sabato. Infatti ci sono altri passi nella Torà che appaiono più appropriati per insegnare l’obbligo di raccontare dell’uscita dall’Egitto durante la notte del sèder di Pèsach.

    Inoltre, dalla Mishnà (Berakhòt,1:5) impariamo che vi è l’obbligo di ricordare l’uscita dall’Egitto “Ogni giorno della tua vita” (Devarìm, 16:3). Infatti nella lettura quotidiana dello Shemà’, recitiamo il passo sulla mitzvà  deglitzitzìt dove è scritto “Io sono l’Eterno vostro Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” (Bemidbàr, 15:37-41). Perché non si soddisfa la mitzvà recitando lo Shemà’ e si deve leggere la Haggadà?

    R. Asher Weiss (Brooklyn, 1953-) di Gerusalemme in una lezione online del 30 marzo ha spiegato che vi sono tre differenze tra la mitzvà quotidiana di ricordare l’uscita dall’Egitto e quella di raccontare dell’uscita dall’Egitto la notte di Pèsach: 1) La mitzvà di ogni giorno è di ricordare l’uscita dall’Egitto. Nella notte di Pèsach la mitzvà  non è di ricordare ma di raccontare i miracoli che l’Eterno ha fatto per farci uscire dall’Egitto sottolineando che non ci siamo liberati in modo naturale. 2) La mitzvà di ricordare l’uscita dall’Egitto ricorre ogni giorno, mentre durante il sèder di Pèsach bisogna raccontare che in questo giorno del 15 di Nissàn siamo usciti dall’Egitto. In modo simile è mitzvà ricordare lo Shabbàt come è scritto “Ricorda il giorno del sabato”. E di Shabbàt quando facciamo il kiddùsh è mitzvà dire che questo è Shabbàt perché in questo giorno l’Eterno ha cessato l’opera della creazione. 3) Per ricordare è sufficiente recitare il passo dell’uscita dall’Egitto e non è necessario farlo a voce alta. Durante il sèder di Pèsach bisogna invece raccontare dell’uscita dall’Egitto e bisogna farlo in modo che chi parla senta quello che dice anche se fa il sèder di Pèsach da solo.

    R. Weiss ha aggiunto che l’obbligo di recitare lo Shemà’ ogni giorno con il passo nel quale si ricorda l’uscita dall’Egitto fa parte della mitzvà di “sottomettersi al regno del cielo”, cioè di riconoscere la presenza divina. Leggendo questo passo non si soddisfa l’obbligo del racconto dell’uscita dall’Egitto.

    La mitzvà di raccontare i “I miracoli e i portenti” dell’Eterno per fare uscire il nostro popolo dall’Egitto assomiglia a quella di ringraziare l’Eterno per i miracoli dei quali beneficiamo nella nostra vita quotidiana, come quelli menzionati nei Tehillìm (Salmi, 107) dove l’obbligo di ringraziare è menzionato riguardo a coloro che sono guariti da una malattia, ai marinai, ai carovanieri e a coloro che sono stati liberati dalla prigione. La festa di ringraziamento che costoro facevano e nella quale raccontavano del bene che l’Eterno aveva fatto loro, era un ringraziamento individuale. Nella sera di Pèsach il ringraziamento e il racconto dei miracoli è invece collettivo di tutto Israele per la liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto.

    Quando esisteva il Bet Ha-Mikdàsh vi era la mitzvà di portare un agnello come sacrificio e di consumarlo a Gerusalemme durante la sera del sèder di Pèsach insieme con la matzà e il maròr. Al giorno d’oggi durante il sèder di Pèsach abbiamo  le mitzvòt di mangiare matzà e maròr  e quella di raccontare dei miracoli dell’uscita dall’Egitto, leggendo il testo della haggadà.  Non avendo il Bet Ha-Mikdàsh, non abbiamo più la mitzvà di portare l’agnello.  

    Il Maimonide nella Guida dei Perplessi, offre delle spiegazioni ai motivi della mitzvà del korbàn pèsach, in un capitolo (III:46) nel quale tratta dei sacrifici.  Egli scrive che gli egiziani adoravano il segno zodiacale dell’ariete e pertanto proibivano la macellazione degli ovini e aborrivano i pastori. Inoltre vi erano alcune sette che adoravano le capre e quindi ne proibivano la macellazione e la maggior parte degli idolatri proibiva la macellazione dei bovini “come fanno gli indiani fino ai nostri giorni”. Pertanto al fine di eliminare le tracce di queste errate opinioni la Torà ci ha ordinato di offrire solo sacrifici di queste tre specie di quadrupedi. Così un’azione considerata [dagli idolatri] un atto di estrema disobbedienza [un sacrilegio], divenne per noi un modo per avvicinarsi a Dio e per chiedere perdono per i nostri peccati.  

    Prima dell’uscita dall’Egitto ci fu data la mitzvà di fare la shechità all’agnello di Pèsach e di aspergere  il suo sangue al di fuori delle porte per rendere manifesto il nostro rigetto di queste opinioni  e per diffondere l’opinione che un’azione considerata distruttiva dagli egiziani, era invece un atto che salva dalla distruzione. Per questo è scritto nella Torà: “Quando l’Eterno passerà per colpire gli egiziani scorgendo il sangue sull’architrave e sui due stipiti, passerà oltre la porta e non permetterà al flagellatore di entrare nelle vostre case per colpire” (Shemòt, 12:23).

    La mishnà nel trattato Zevachìm (5:6) insegna che il Korbàn Pèsach non va mangiato altro che di notte e fino a mezzanotte, e solo dalle persone in determinato numero, che si erano prenotate prima, ed arrostito esclusivamente sul fuoco.

    Il Maimonide nella Guida dei Perplessi afferma che l’agnello di Pèsach doveva essere consumato solo arrostito allo spiedo, in una sola casa e senza romperne le ossa. Questo perché come si mangiava pane azzimo per affrettarsi, così pure l’arrostimento dell’agnello era dovuto alla fretta, come è scritto “Lo mangerete in fretta” (Shemòt, 12:11).  La fretta non permetteva di perdere tempo per rompere le ossa o per mandare parti di esse da una casa all’altra e attendere che il messaggero ritornasse. La fretta era necessaria per impedire che qualcuno si attardasse e uscisse dall’Egitto da solo esponendosi ai pericoli. Queste circostanze furono così perpetuate per commemorare l’evento così come avvenne. Per questo nella Torà è scritto “E osserverete questo decreto al tempo stabilito di anno in anno” (Shemòt, 13:10). La mitzvà che l’agnello di Pèsach potesse essere consumato solo da coloro che si erano prenotati  per fare parte del gruppo aveva lo scopo di far sì che ci si occupasse della cosa fin dall’inizio e di impedire di dipendere da altri.

    Nel Mishnè Torà il Maimonide aggiunge che per soddisfare l’obbligo di raccontare durante la sera del sèderbisogna leggere i passi che trattano del Korbàn Pèsach, della matzà e del maròr.  E inoltre in ogni generazione è nostro obbligo mostrare come se noi stessi fossimo usciti ora dalla schiavitù d’Egitto. Pertanto bisogna mangiare come fanno gli uomini liberi e bere quattro bicchieri di vino.

    R. Ya’akov ben Asher ( Colonia, 1269-1343, Toledo) nel suo commento Ba’al Haturìm  alla Torà riferendosi al versetto “E mangeranno la carne in questa notte, arrostito al fuoco, e lo mangerete con matzà e maròr” (Shemòt, 12:8) scrive: “La parola mangeranno  appare quattro volte nel Tanàkh. Due volte riguardo a Pèsach (qui e in Bemidbàr, 9:11) e una terza volta riguardo ad Aharon, (Vaykrà, 8:31-33) per il sacrificio portato in occasione dell’investitura dei kohanìm durante l’inaugurazione del Mishkàn. In quell’occasione  fu detto loro «Arahon e i suoi figli lo mangeranno» e anche di «non uscire» per una settimana dal Mishkàn.  Prima dell’uscita dall’Egitto fu detto agli israeliti di «non uscire» dalle proprie case (Shemòt, 12:22). La quarta volta che l’espressione mangeranno appare nel Tanàkh è nel profeta Yesha’yà (Isaia, 62:8-12) che tratta della redenzione finale del popolo d’Israele, dove è scritto:

     

    L’Eterno l’ha giurato per la sua destra e pel suo braccio potente: Io non darò mai più il tuo frumento per cibo ai tuoi nemici; e i figli dello straniero non berranno più il tuo vino, frutto delle tue fatiche; ma quelli che avranno raccolto il frumento lo mangeranno e loderanno l’Eterno, e quelli che avranno vendemmiato berranno il vino nei cortili del mio santuario. Passate, passate per le porte! Preparate la via per il popolo! Acconciate, acconciate la strada, toglietene le pietre, alzate una bandiera dinanzi ai popoli! Ecco, l’Eterno proclama fino agli estremi confini della terra: “Dite alla figliuola di Sion: Ecco, la tua salvezza giunge; ecco egli ha seco il suo salario, e la sua retribuzione lo precede”. Quelli saranno chiamati “Il popolo santo”, “I redenti dell’Eterno”, e tu sarai chiamata “Ricercata”, “La città non abbandonata”.

     

    R. Ya’akov ben Asher conclude: “Questo stabilisce un parallelismo tra la  redenzione finale e quella di Pèsach”. Cosi come a Pèsach in Egitto gli israeliti rimasero chiusi in casa, anche nella redenzione finale il popolo d’Israele sarà chiuso in casa!  

    Auguriamoci che questo Pèsach quando saremo costretti a rimanere in casa a causa del virus sia l’occasione per la redenzione del popolo d’Israele.

     

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