di Serena Di Nepi
In questi giorni si parla con molte buone intenzioni di memoria e di memorie di genocidi e del posto che questi devono avere nel dibattito pubblico, grazie alla mediazione di intellettuali e storici da educare alla bisogna. Un appello per la memoria che rischia, purtroppo, di generare confusioni non volute e di tradursi nel risultato opposto, proprio a proposito di genocidi in generale e di Shoah in particolare. A più di ottanta anni dalle leggi razziali italiane e mentre il passaggio generazionale detta tempi e domande, mi pare, finalmente, arrivato il momento di imporre che della Shoah si faccia storia e non memoria. La Shoah non può essere raccontata come un “meteorite” caduto dal cielo, in cui le forze del male presero il sopravvento per ragioni inesplicabili e incomprensibili, con due paginette striminzite e isolate nei manuali di storia contemporanea. La Shoah è un “fatto storico” e come tale va indagata, studiata e narrata, secondo i criteri della disciplina, sia a livello di ricerca sia, ancora di più, in divulgazione, ben al di là dei riti e della retorica. Il nostro impegno deve essere perché anche nei manuali di scuola la Shoah sia presentata nel suo contesto storico, all’interno della seconda guerra mondiale, nelle sue relazioni con la formazione degli stati moderni e dei totalitarismi e nel quadro delle svolte culturali, economiche, sociali e politiche dell’epoca a partire, almeno, dall’avvento degli stati liberali. Ancora di più, le nostre energie dovrebbero andare nella richiesta di istituire finalmente corsi di dottorato e cattedre di Shoah studies, che formino studiosi capaci di lavorare a livello nazionale e internazionale su una questione straordinariamente difficile e che richiede, ad esempio, competenze linguistiche rarissime nel panorama italiano (per dire, serve almeno il tedesco e non basta certo un po’ di inglese). Historia magistra vitae, diceva Cicerone, secondo un pensiero forse consolatorio ma che nulla ha a che vedere con la storia come disciplina scientifica. La storia degli storici, qualunque sia il suo campo di interesse, interroga il tempo presente e ne ripercorre le ansie e i problemi, costruendo narrative che producono significati nell’oggi e che, di certo, non possono e non ambiscono né a prevedere il futuro né, tanto meno, a predeterminarlo. In qualche modo, è urgente andare oltre il monito “mai più” e accettare di indagare la Shoah liberandola dal peso della memoria e delle emozioni: troppo facile e troppo auto-assolutorio dire “raccontiamo e ricordiamo affinché non si ripeta” senza fermarsi a studiare fino in fondo le responsabilità, i quando, i come e i perché. Proprio perché studiare il meccanismo genocida costringe a mettere a fuoco il male delle nostre società, occorre studiarlo con metodo e nel riconoscimento della unicità di ciascun genocidio, come evento e processo a sé stante, frutto di condizioni e di scelte umane, con tutte le difficoltà che questo comporta nel momento in cui ci si comincia a specchiare nel passato. E, aggiungo, tutto questo non può ricadere in alcun modo esclusivamente sulle spalle delle comunità ebraiche ma deve essere elemento di politica culturale e civile della società nel suo complesso. Come ci ha insegnato rav Sacks z”l, il nostro essere ebrei è non è mai definito dalle persecuzioni che il nostro popolo ha subito e dal fato che altri ci hanno imposto dall’esterno e contro la nostra volontà: è una scelta continua e consapevole, che affonda nelle catena delle generazioni e che noi abbiamo la responsabilità di trasmettere ai nostri figli e ai nostri nipoti. E faremmo bene a ricordarcelo anche nel dibattito pubblico.
Serena Di Nepi