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    Parashà di Vayetzè. Il patriarca Ya’akòv, l’uomo ideale

    Il sogno di Ya’akòv con angeli che salgono in cielo e scendono viene trattato dai maestri nel Midràsh e da quasi tutti i commentatori della Torà. Dopo essere partito da Beer Sheva’ per andare a Charàn, il patriarca Ya’akòv si ferma a pernottare in un luogo dove sogna: “ed ecco una scala posta a terra la cui cima arriva in cielo. Ed ecco che degli angeli di Dio salgono e scendono su di essa” (Bereshìt, 28:12).

    R. Shelomò Ohev (v.1600) rav di Ragusa in Dalmazia, nella sua opera Shèmen Hatòv (Venezia, 1657, Vendramina) commenta che Ya’akòv nel suo sogno vide che lui stesso era una scala che saliva dalla terra al cielo, perché grazie alla sua rettezza collegava cielo e terra.

    I maestri nel Midràsh affermano che gli angeli salivano fino al “Trono di gloria” dell’Eterno sul quale vi erano incise le quattro figure della visione del profeta Yechezkèl (Ezechiele, 1) e una di queste era una faccia umana.

    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Bereshìt, p.211-212) scrive che nel midràsh (Bereshìt Rabbà, 66:12) i maestri affermano che l’immagine di uomo incisa sul trono celeste era quella di Ya’akòv. Nel sogno di Ya’akòv gli angeli salivano sulla scala per vedere l’immagine e poi scendevano dalla scala per vedere Ya’akòv a terra e si meravigliavano di osservare che le due immagini erano identiche.

    R. Soloveitchik aggiunge che quando un essere umano commette un peccato la sua personalità esterna si allontana dal suo puro “io” interiore. Poiché Ya’akòv era senza peccati non vi era alcuna differenza tra l’immagine ideale di Ya’akòv incisa sul trono celeste e quella reale di Ya’akòv sulla terra. Il peccato  divide la personalità in componenti non pure e pure. La Torà desidera che la persona sia tutta una, in linea con l’imperativo di mantenere la sua immagine divina. Il fondamento dell’esistenza umana è Imitatio Dei. Poiché Dio è uno, il nostro obiettivo dev’essere quello di emulare questo attributo il più possibile. La Torà non ha mai accettato l’idea che il corpo è intrinsecamente non puro. Al contrario l’essere umano deve tendere a santificare il corpo e di essere coerente senza conflitti o contraddizioni.  

    Un simile concetto è espresso da Simcha Bunim Bonhardt, rebbe di Peshiska (Polonia, 1765-1827). R. Michael Rosen in The Quest for Authenticity – The thought of Reb Simcha Bunim (p. 284-285) scrive che c’è una corrente ebraica di pensiero che l’essere umano è stato creato in modo tale da essere in una costante lotta tra corpo e spirito. E questo porta all’anelito di liberarsi dalla prigionia del corpo. L’implicazione è che poiché in questo mondo materiale il corpo è dominante, la spiritualità per un essere umano non è una cosa naturale. Nel pensiero del rebbe Simcha Bunim invece non vi è dualismo. Il mondo non è diviso tra corpo e anima. Il disegno divino è che l’essere umano impari a funzionare in un mondo di imperfezione nel quale la componente fisica si raffini e diventi un partner nel servizio divino.  

    R. Mordekhai Hakohen (Safed, 1523-1598, Aleppo) in Siftè Kohen, commenta che Ya’akòv vide nel sogno che aveva realizzato l’ideale della creazione e che i due mondi di anima e corpo erano connessi.

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