Nel Midràsh Rabbà (Devarìm, parashà 1:15) è detto: “R. Shim’òn ben Gamlièl disse: nessuno onorò i suoi come ho fatto io con i miei padri. Però ho trovato che Esau onorò suo padre più di me. […] perché io servivo mio padre con i miei vestiti da casa (lett. sporchi). E quando uscivo per la strada mi liberavo di questi vestiti e indossavo i miei vestiti eleganti. Esau invece non faceva così; i vestiti che indossava quando serviva suo padre erano i migliori che aveva…”.
R. Ya’akòv Yitzchàk Rabinowicz detto Ha-Yehudì ha-Kadosh (Polonia, 1766-1813), rebbe di Peshiska, citato in Niflaòt Ha-Yehudì (52) e in Orhòt Haim (40), chiese per quale motivo R. Shim’òn ben Gamliel non indossò i suoi vestiti migliori quando serviva suo padre, come fece Esau. Il rebbe spiegò che i vestiti sono anche un mezzo per dare un’immagine. Dire che Esau serviva suo padre con i vestiti migliori significa che egli progettava un’immagine positiva di se stesso a suo padre. I maestri dissero che Esau chiedeva a suo padre come si fa a prendere la decima dalla paglia e dal sale [ben sapendo che non richiedono la decima]. E anche se facendo così egli ingannava il padre con la sua falsa religiosità, il padre Yitzchàk avrebbe preferito non essere ingannato. Al contrario avrebbe preferito vedere i difetti di suo figlio per poterli correggere. Con tutto ciò per un momento Yitzchàk si sentì tranquillo immaginando che suo figlio si comportava in modo corretto.
R. Shim’òn ben Gamlièl disse che non era in grado di onorare suo padre come fece Esau, perché non era disposto a nascondere i suoi difetti da suo padre. Al contrario, indossava i vestiti di casa. R. Shim’òn voleva [essere totalmente onesto e] fare sì che suo padre conoscesse i suoi difetti. E nonostante che il padre approvasse questo comportamento perché gli avrebbe permesso di correggere i difetti di carattere del figlio e mostrargli la strada divina, per un breve momento il padre era rimasto turbato. Per questo motivo il Yehudì disse che R. Shim’òn ben Gamlièl non poteva onorare suo padre come fece Esau.
R. Michael Rosen nel suo libro “The Quest for Authenticity” (Jerusalem, Urim Pub., 2008, p. 21) commenta che la risposta del Yehudì esprime l’essenza del pensiero chassidico di Peshiska sul modo di comportarsi nel mondo. Il Yehudì sosteneva che ogni rapporto, con se stesso, con altri esseri umani o con il Creatore era impossibile senza integrità (truthfullness). Esau rappresenta coloro che si comportano in modo di fare bella figura senza badare alla propria integrità.
La mancanza di integrità di Esau fu uno dei fattori che lo fecero uscire dalla famiglia del patriarca Avraham. Come spiega R. Yitzchàk Hutner (Varsavia, 1906-1980, Gerusalemme) in Pàchad Yitzchàk (Succòt, Maamàr 4), Yishma’èl non fu mai parte della famiglia perché fu mandato via da casa con la madre Hagar. In quella occasione l’Eterno disse ad Avraham : “Sarà chiamata tua discendenza solo quella da Yitzchàk”. La separazione di Yishma’èl avvenne quindi per decreto divino. Quella di Esau avvenne in modo volontario. Per questo nel primo capitolo del trattato talmudico di Kiddushìn (18a), Esau è chiamato un israelita apostata (meshummàd o mumàr). Ishma’èl invece non è mai chiamato israelita apostata perché egli non fu mai israelita.