Da quando Moshè appare sulla scena della Torà non vi è una parashà nella quale il suo nome non sia menzionato. L’eccezione è questa parashà. Su questo fenomeno ne parla lo Zòhar nella parashà di Pinechàs (p. 246a): “Chi è più grande di Moshè che disse: ordunque perdona la loro colpa, altrimenti cancellami dal libro che hai scritto” (Shemòt, 32:32). Moshè pronunciò questa preghiera dopo il peccato del vitello d’oro quando vi era il pericolo che il popolo venisse distrutto. Il testo dello Zòhar prosegue con queste parole: “Egli disse questo (“cancellami”) per un buon motivo; e nonostante che il Santo Benedetto accettò la sua preghiera, egli non evitò di essere punito con la cancellazione del suo nome dalla parashà di Tetzavè”.
R. Ghedalia Schorr (Polonia, 1910-1979, Brooklyn) in Or Gedalyahu (Shemòt, p. 72-73) scrive che Moshè nel pregare per il popolo ci mise l’anima. Pertanto è difficile interpretare che la cancellazione del nome di Moshè fu una punizione. R. Schorr offre quindi un’interpretazione positiva. La parashà inizia con le parole “E tu comanderai” (Ve-atà tetzavè). La prima lettera è la “vav” di congiunzione. I Maestri spiegano che “ve-atà” significa “Io e te”, come se il Santo Benedetto avesse detto “Io e te insieme”. R. Schorr aggiunge che il nome di una persona è la radice e l’essenza dell’uomo; in questa parashà l’ordine viene dato a Moshè senza enunciare il suo nome, per indicare che Moshè nostro maestro si era annullato di fronte al Creatore, al punto che neppure il suo nome lo separava. Pertanto lo spirito di sacrificio di Moshè che si annullò totalmente dicendo “cancellami”, fu ricompensato concedendo a Moshè il privilegio di essere collegato al Creatore senza nessuna separazione.
R. Yitzchak Meir Alter (Polonia, 1799-1866) rebbe di Gur, nell’opera Chiddushè Ha-Rim offre una spiegazione simile. Il rebbe cita il testo della ghemarà nel trattato Bavà Kamà (61a) che si riferisce a un episodio di re Davide quando combatteva contro i filistei. Nel libro di Shemuèl (2 Samuele, 23:14-17) è scritto: “Davide era allora nella fortezza e c’era un appostamento di Filistei a Betlemme. Davide espresse un desiderio e disse: «Se qualcuno mi desse da bere l’acqua del pozzo che è vicino alla porta di Betlemme!». I tre prodi si aprirono un varco attraverso il campo filisteo, attinsero l’acqua dal pozzo di Betlemme, vicino alla porta, la presero e la presentarono a Davide; il quale però non ne volle bere, ma la sparse davanti al Signore, dicendo: «Lungi da me, Signore, il fare tal cosa! È il sangue di questi uomini, che sono andati là a rischio della loro vita!». Non la volle bere. Questo fecero quei tre prodi”.
Nella ghemarà viene data una interpretazione allegorica al testo di Shemuèl. R. David Kimchi (Narbona, 1160-1235) spiega che la Torà è paragonata all’acqua, e il pozzo al Sinedrio. I tre prodi erano andati al bet din di Betlemme per chiarire una halakhà e nel fare ciò avevano rischiato la loro vita per passare attraverso il campo filisteo. Cosa significa che David non la volle bere? Che non voleva che essi fossero citati. E disse: Così ho imparato per tradizione dal bet din di Shemuèl che chi è disposto a sacrificarsi per la Torà non viene citato quando ha enunciato una halakhà.
Il rebbe spiega che chi si sacrifica (mossèr nafshò) per la Torà, fa sì che le sue parole diventino parte integrante della Torà e non appartengano più a chi le ha dette. Cosi pure nella parashà di Tetzavè, il nostro maestro Moshè poiché era pronto a sacrificarsi per il popolo, diventò parte della Torà e per questo il suo nome non fu citato.