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    Parashà di Devarìm. La risposta di Dio a Giobbe

    All’inizio del libro di Devarìm, arrivati al confine con la Terra Promessa, all’undicesimo mese del quarantesimo anno, Moshè racconta come fu difficile guidare il popolo e disse all’Eterno:  “Come (ekhà) posso io da solo portare il vostro peso, il vostro carico e le vostre liti?“.  I Maestri nel Midràsh (Ekhà Rabbà, 1:1) paragonano la parola “ekhà” usata da Moshè alla stessa espressione usata dai profeti Isaia e Geremia. Il libro delle Lamentazioni di Geremia (la meghillà di Ekhà) inizia con queste parole: “Ekhà yashvà badàd” (come rimase sola). Nel midràsh i maestri affermano che  tre profeti usarono la parola “Ekhà”:  Moshè , Isaia e Geremia. Moshè disse “Come posso io da solo portare il vostro peso” (Devarìm, 1:12). Isaia disse: “Come fu che la fedele città si trasformò in una prostituta” (Yesha’yà, 1:21). Geremia disse: “Come fu che la popolosa città rimase sola come una vedova” (Meghillàt Ekhà, 1:1).

    R. Moshè  Feinstein ( Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè (ed. inglese, p. 280) scrive che la parola “ekhà” in questo midràsh può essere spiegata come espressione di stupore: “Come è possibile una cosa simile?”. Moshè era stupito che una persona potesse arrivare a un livello tale da poter pensare di essere in grado di guidare da solo il popolo. Isaia fu stupito che una città come Gerusalemme con illustri antenati dai quali prendere esempio potesse scendere a un livello così basso. Geremia fu stupito che fosse possibile la distruzione della città. Per quanto gravi i loro peccati, gli israeliti erano ancora a un livello morale superiore a quello delle altre nazioni del mondo.    

    R. Ya’akòv Yosèf di Polnoye (Ucraina, 1710-1783) in Toldòt Ya’akòv Yosèf (Devarìm, pp. 611-612, ed. Jerusalem, 1973) spiega che gli abitanti della città rimasero soli perché non seguirono i giusti che vi abitavano. Questo fece così che si divisero in molte (rabatì) opinioni e per questo motivo la città rimase sola come una vedova. Più in là R. Ya’akòv Yosèf spiega il significato del versetto di Geremia dove è scritto: “I suoi avversari sono al comando (hayù tzarèha leròsh), i suoi nemici vivono tranquilli (oyevèha shàlu) (ibid., 1:5). E aggiunge che le lettere della parola “leròsh” (al comando) sono le iniziali della frase: La’asòt ratzòn avìnu she-bashamàim” che significa: “Fare la volontà di nostro Padre che è in cielo”. Con questa citazione R. Ya’akòv Yosèf vuole affermare che le disgrazie sono dei messaggeri dell’Onnipotente e sono fatte per farci avvicinare a Lui la cui, mano è metaforicamente tesa ad accogliere i penitenti.

    R. Yosef Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) trattò l’argomento qui sopra menzionato in Kol Dodì Dofèk. Chiedere il perché delle sofferenze è inutile. Ci provò Giobbe e l’Eterno gli rispose: “Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?  Orsù, cingiti i lombi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!  Dov’eri tu quand’io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza” (Yiòv, 38: 2-4). Se non sai l’ABC della creazione perché hai la sfrontatezza di fare domande su come funziona il mondo? L’Eterno disse a Giobbe che non avrebbe mai potuto comprendere il motivo delle sventure, ma era suo dovere imparare cosa bisognava fare dopo le sventure. Lo scopo delle sventure è quello di correggere i propri difetti. La Torà ci insegna che è un peccato non utilizzare le sventure per migliorarsi: “Quando nelle tue sventure ti capiteranno tutte queste cose, alla fine tornerai all’Eterno tuo Dio e lo obbedirai” (Devarìm, 4:30). La sofferenza obbliga l’uomo a fare teshuvà. Le disgrazie sono il mezzo per risvegliarci alla teshuvà, al rinnovo e all’elevazione spirituale. R. Soloveichik fa notare che questi concetti sono codificati dal Maimonide nel Mishnè Torà (Hilkhòt Ta’anìt, 1:1-4)

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