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    ITALIA

    Le minacce di oggi e le trattative di ieri

    Ci risiamo. Il terrorismo palestinese è di nuovo presente in Italia nelle vesti di infiltrati alle manifestazioni all’Università. Abid El Hali, 62 anni, è stato identificato dai poliziotti della Digos e della Scientifica negli scontri a La Sapienza di Roma. Nel 1984, Abid El Hali attentò a Roma alla vita di un diplomatico degli Emirati Arabi Uniti. L’uomo sopravvisse miracolosamente, morì invece la sua segretaria, una giovane donna di cittadinanza iraniana. Il terrorista fu arrestato in flagranza e si dichiarò prigioniero politico. Ha scontato la sua pena a 24 anni di carcere e al termine è rimasto in Italia. Secondo quanto rivelato dall’Agenzia Adnkronos l’8 maggio scorso, la magistratura romana aveva spiccato anche un secondo mandato di cattura su Abid El Hali perché considerato un membro del gruppo di Abu Nidal e perciò partecipe in qualche modo anche all’attentato di Fiumicino del 1985. Fu una strage orrenda che rimane abbastanza misteriosa. Morirono 13 persone e ne rimasero ferite 76. Il gruppo di Abu Nidal è considerato anche l’esecutore dell’attentato alla Sinagoga di Roma il 9 ottobre 1982.

    Un’ondata preoccupante dopo l’arresto all’Aquila il 29 gennaio scorso di Anan Yaeesh, palestinese di 37 anni, accusato di terrorismo e di aver pianificato attacchi anche in Italia e attualmente detenuto nel carcere di Terni dopo il no della magistratura italiana alla richiesta di estradizione avanzata dalle autorità israeliane.

    Dei pericoli di oggi e di ieri riguardo al terrorismo palestinese in Italia, ne parliamo con Francesco Grignetti, giornalista de La Stampa, e autore, tra gli altri, di due libri sulle trattative tra il governo italiano e i palestinesi: “Salvate Aldo Moro, la trattativa e la pista internazionale”, Melampo editore; e in ebook: “La spia di Aldo Moro” sul colonello Stefano Giovannone, uomo dei servizi servizi segreti di stanza a Beirut. Grignetti è tornato sull’argomento in un articolo de La Stampariguardo proprio a Abid El Hali il 9 maggio scorso.

    Quali erano i rapporti tra il nostro governo di allora e le due organizzazioni terroristiche palestinesi, l’Olp di Arafat e il Fplp, il Fronte Popolare di Liberazione Palestinese? «Molto complessi, articolati e altalenanti nel tempo – spiega Grignetti -. Nel suo libro di memorie, l’ammiraglio Fulvio Martini accenna al doppiogiochismo degli italiani. Prima del 1973, c’è una spaccatura all’interno dei servizi segreti italiani tra filoisraeliani e filopalestinesi che rispecchia i due schieramenti politici e Aldo Moro rappresenta il capofila della corrente filoaraba e filopalestinese. In questo contesto, nasce un accordo, che poi sarà chiamato “Lodo Moro”, un patto non scritto, gestito dall’intelligence con Al Fatah ma poi esteso anche al Fplp. I movimenti armati palestinesi ricevono una serie di facilitazioni economiche, ma probabilmente anche armi, e la possibilità di usare l’Italia come luogo di transito per le loro azioni in Medi Oriente e in Europa». Ma non tutto fila liscio. Il 15 gennaio 1973, la premier Golda Meir è attesa a Roma per un viaggio ufficiale. I problemi iniziano i giorni precedenti. «Il viaggio di Golda a Roma ha notevole importanza in quel periodo, viene visto dai palestinesi come l’occasione per un attentato terroristico di particolare enfasi». Il viaggio cade dopo la strage di Monaco, mentre è in atto l’Operazione Ira di Dio da parte del Mossad per andare a stanare gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi. «L’arrivo di Golda – spiega Grignetti – viene preceduto da un lavoro di intelligence del Mossad per garantire la sicurezza del primo ministro in Italia. I servizi segreti israeliani fanno una scoperta: un gruppo terrorista armato di missili terra-aria mira ad abbattere l’areo di Golda Meir in atterraggio a Fiumicino. Il Mossad si rivolge alle autorità italiane, al generale Maletti, responsabile del Sid. Si decide un’operazione congiunta tra il Mossad e i carabinieri perché avviene in territorio italiano. L’azione ha successo, i terroristi vengono arrestati, l’operazione viene tenuta rigorosamente segreta e i cinque sparirono nel nulla. Secondo quanto riportato da un ex agente del Mossad, Victor Ostrovsky, i terroristi vengono tenuti in una prigione segreta e duramente interrogati dagli israeliani per ricostruire le reti di Settembre Nero in Europa. Nell’estate del 1973, diversi mesi dopo quest’operazione, si passa da un governo Andreotti con forti venature filoatlantiche a un governo Rumor dove sono molto più forti le correnti della sinistra democristiana di Aldo Moro che ottiene l’incarico di ministro degli Esteri. È in questa fase che cambia la politica italiana, soprattutto quella mediorientale. Si cercano contatti con i palestinesi, anche rivelando quello che fino a quel momento era restato segreto. Un certo giorno di settembre viene data la notizia al telegiornale che cinque terroristi palestinesi sono stati arrestati tra Ostia e Fiumicino perché volevano attentare ad un aereo della El Al e sarebbero stati portati in un carcere di Viterbo. Il mancato attentato non viene ricondotto a Golda Meir perché questo vuol dire coinvolgere il Mossad. Ma gli israeliani non la prendono comunque bene. L’incaricato dei servizi israeliani si lamenta con il generale del Sid Gianadelio Maletti e accusa gli italiani di averli traditi. Propone di rapire i cinque nel trasporto al carcere di Viterbo, ma Maletti si oppone. Da quel momento tutto cambia. L’operazione di Ostia pone le basi del Lodo Moro, il Sid cementa un’alleanza con Al fatah e Flpl. Vengono permesse cose inaudite ai palestinesi, vengono fatti entrare nel carcere di Viterbo per parlare direttamente con i fedayn. Poi arrivano le scarcerazioni. Prima ne liberano tre, poi altri due. Ed è addirittura Moro che va a parlare ai giudici e spiega che si tratta di “sicurezza dello Stato”. I componenti del gruppo di fuoco vengono portati segretamente in un appartamento occulto del Sid e poi con un aereo dei servizi, Argo16, trasferiti in Libia e consegnati all’Olp».

    Ma gli attacchi non si fermano e arriviamo all’attentato all’aeroporto di Fiumicino il 17 dicembre 1973 con 32 morti e 15 feriti, la più grande strage civile in Italia dopo quella della stazione di Bologna. «L’attentato – spiega Grignetti – arriva non del tutto casualmente in occasione di un’udienza del processo. I primi tre terroristi sono stati scarcerati, ce ne sono ancora due in carcere. Il governo dell’epoca ne rimane sconvolto perché ritiene che il Lodo sia entrato in vigore e quindi non si aspetta minimamente un’azione terroristica. Ne scrive nelle sue memorie l’ex ministro Paolo Emilio Taviani che riferisce anche in parlamento. ‘Secondo me – dice Taviani – è entrato in azione Settembre Nero per sabotare l’accordo con Arafat’. Nel 1973 quello che Taviani chiama Settembre Nero è una nebulosa di cui si conosce pochissimo, però, quello che il governo italiano intuisce è che probabilmente c’era una fazione dell’Olp che non era soddisfatta. A posteriori, cinquant’anni dopo, noi veniamo a sapere che non solo il Lodo Moro viene integrato rapidamente anche con George Habbash del Flpl, ma anche che il colonnello Stefano Giovannone da Beirut inizia a spiegare che la galassia palestinese è una bestia molto complicata e un accordo solo con Arafat non è sufficiente. In più, sappiamo che l’attentato fu fatto da una frazione che dipendeva molto dai libici. L’esplosivo fu usato come strumento di pressione politica, ma si capisce che fu un’azione terroristica mirata».

    Da questo momento in poi, la politica italiana cambia. Tutti i partiti di maggioranza e opposizione sono schierati con i palestinesi, dalla DC, al PCI, al PSI. Uniche eccezioni il piccolissimo Partito Repubblicano all’interno della maggioranza e i Radicali. «È un processo politico che arriva al punto più alto con il governo della non sfiducia, quindi con l’avvicinamento dei comunisti all’area dell’esecutivo, con il ritorno di Andreotti alla guida del governo, ma in chiave politica opposta rispetto al 1973. In questo contesto, uno dei pilastri degli accordi politici è una comune visione mediorientale molto sbilanciata a favore degli arabi e dei palestinesi. Non dimentichiamoci il contesto con lo shock petrolifero e le conseguenze economiche. In questa partita qui si inserisce il ricatto arabo-palestinese: petrolio in cambio di benevolenza».

    Viene da chiedersi se il fautore politico dell’accordo dei palestinesi, ovvero Aldo Moro, fosse veramente convinto della causa dei palestinesi o lo facesse per motivi di opportunità politica. «Credo ci credesse veramente – risponde Grignetti – Non gli sfuggiva l’aspetto economico, ma in una visione di superamento della Guerra Fredda e di pacificazione del Mediterraneo, Moro inseriva la questione palestinese e anche araba in un disegno di distensione e superamento dei due blocchi».

    Veniamo ai giorni del rapimento Moro, 16 marzo 1978. Pochi giorni prima, Giovannone da Beirut ha notizie di una possibile azione dei terroristi in un paese europeo che può essere anche l’Italia. «Giovannone aveva colto qualche cosa che però non aiutò a prevenire l’attentato. C’erano forti contatti tra i palestinesi di area marxista e i terroristi europei, tedeschi, francesi e italiani. Quando Moro viene sequestrato, i servizi stranieri, il Sismi, vengono convocati, incluso Giovannone. Il colonnello incasella quella soffiata e si rende conto che ha a che fare con l’attentato di via Fani. E che quello può essere un filo rosso da risalire. Giovannone ha una devozione particolare nei confronti di Aldo Moro, ha la stessa visione sulla politica mediorientale, lo va sempre a trovare quando passa a Roma, i due si chiudono nello studio e parlano per ore. Dopo il rapimento, Giovannone inizia a contattare arabi e palestinesi con due scopi: non far perdere la faccia al governo rispetto alla linea della fermezza e portare a casa il risultato, ovvero la liberazione di Moro. Io sono riuscito a ricostruire con fonti sicure nel mio secondo libro come quella trattativa che parte da Beirut, che passa per ambienti di estrema sinistra fiancheggiatori del terrorismo in Germania e in Svizzera, approdi infine in Italia. In questo contesto, ad un certo punto si inserisce anche il maresciallo Tito, legato a Moro perché precedentemente aveva chiuso con lui l’accordo di Osimo su Istria e Dalmazia. Tito mette sul tavolo la moneta di scambio: non la liberazione di qualche terrorista italiano, come scrivono i giornali italiani, bensì la liberazione occulta di quattro terroristi tedeschi della Raf di primissima grandezza che in quel momento erano stati fermati in Jugoslavia. I quattro sono inseriti in un circuito dove c’è anche Habbash e Carlos, il mondo marxista della galassia terrorista palestinese. Attraverso dei contatti, viene chiesto alla Br di liberare Moro, ma di questo nessuno di loro, da Moretti in giù, ha mai voluto parlare». Viene da chiedersi allora perché con tutti le intermediazioni, con Moro paladino della causa palestinese, i contatti non vanno a buon fine e l’epilogo è quello che conosciamo. «Il mio parere – spiega Grignetti – è che il gruppo dirigente delle Br valutò che per loro non c’era nessun vantaggio. Anzi, che sarebbe stato un segno di debolezza la liberazione di Moro senza contropartite plausibili. Con una contropartita occulta, quella dei terroristi della Raf, lo Stato non perdeva la faccia. La faccenda sarebbe stata nota soltanto al governo e a una parte dei servizi. Questa cosa per Moretti e per l’area militarista era troppo poco. Penso che le Br accelerarono i tempi e fecero trovare Moro morto quella mattina proprio per chiuderla lì».

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