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    ITALIA

    L’atmosfera cupa delle università italiane

    Le istituzioni accademiche restano solidali, ma si susseguono tensioni da non sottovalutare

    Nelle ultime settimane, le università sono tornate al centro della scena politica nazionale e internazionale. Mentre si susseguono notizie terribili dai campus americani travolti da proteste che non si vedevano da anni e dove studenti e docenti ebrei si sono trovati ad essere bersaglio di ostilità diffusa, e spesso anche violenta, si fa ricorrente la domanda su come stia l’università italiana. E la risposta non è né semplice né lineare.

    Il primo elemento da sottolineare è che le istituzioni accademiche hanno convintamente rigettato il boicottaggio e si sono espresse con forza contro ogni manifestazione di antisemitismo. Pur con qualche eccezione sul bando di cooperazione italo-israeliana, in linea di massima i rettori, i senati accademici e i vertici della ricerca italiana (dalla Ministra in giù) hanno difeso con convinzione il ruolo essenziale delle università come spazi di dialogo e di confronto, anche nei momenti più difficili. Si tratta di un risultato importante, niente affatto prevedibile in questi termini e in questa portata e da cui bisogna partire per qualunque valutazione su quello che succede (e non succede) nelle università del Paese. Il fatto che questo avvenga nonostante il dissenso sempre più rumoroso di collettivi piccoli ma molto ben organizzati e la successione incalzante di un ventaglio di appelli capaci di raccogliere qualche migliaio di firme rappresenta un successo. Al netto delle singole mozioni e delle discussioni anche vivaci, significa che chi vive l’università sa di poter fare affidamento sul sistema nel suo complesso: studenti, docenti, personale amministrativo ebrei e/o israeliani hanno a disposizione regolamenti e procedure per segnalare eventuali problemi e intervenire tempestivamente in caso insorgessero.

    Allo stesso tempo, però, la violenza verbale e la capacità di ottenere visibilità da parte dei collettivi di estrema sinistra che urlano contro Israele e contro le scelte della governance non può e non deve essere sottovalutata. A partire dall’8 marzo – e cioè dal giorno della contestazione a David Parenzo alla Sapienza – assistiamo a un cambiamento pesante e in parte inatteso del clima. Una sequela di incidenti che si sono ripetuti con modalità e rivendicazioni simili in molte città: prima a Napoli contro Maurizio Molinari, poi con le irruzioni ripetute nelle sedute di Senato Accademico in tante sedi, fino ai fatti del 25 aprile a Roma e a Milano, che hanno sempre visto protagonisti questi collettivi universitari in nome di una Liberazione antifascista e antisionista. Pur con numeri ridottissimi, questi gruppi riescono ora a dettare l’agenda delle università tra scioperi della fame, tende, cortei e catene e slogan intollerabili.

    Un’atmosfera cupa che accompagna ogni passaggio della quotidianità accademica, in una faticosissima condizione di sospensione e isolamento. In questo infinito 8 ottobre, da cui non sembra ancora possibile uscire, si fanno i conti giorni dopo giorno con le reazioni dei colleghi, tra indifferenza, freddezza e ostilità diffuse. Parole, frasi, battute ambigue che fino al 6 ottobre non sarebbe stato pensabile pronunciabile restano nell’aria, in un silenzio gelido e spesso inaspettato. Ci sono i redattori e firmatari di appelli irricevibili e densi di ignoranza e pregiudizio. Ci sono gli ignavi che non si pronunciano pubblicamente. E ci sono poi quelli che, invece, in questi mesi terribili sono stati attenti, presenti, vicini. Luci nel buio che, magari anche da posizioni critiche, aiutano a fare chiarezza e a rompere quella stessa barriera di solitudine e disperazione, tra chiacchiere al caffè, chat su WhatsApp nel cuore della notte, iniziative pensate e progettate insieme.

    Anche la maggioranza silenziosa degli studenti, quella che non va sui giornali, riserva sorprese. L’esperienza maturata nei corsi di laurea triennale e magistrale di storia di Sapienza in questo anno così difficile ha confermato, ancora una volta, quanto studenti e studentesse siano interessati, curiosi e pronti ad apprendere e discutere. Anche quando si mettono sul tavolo le questioni calde dei nostri tempi e si invitano docenti israeliani a parlare delle loro ricerche. I giovani sono migliori di come ce li aspettiamo. E possono esserlo anche i loro maestri. E in un momento di ansia e paura, di memorie inquietanti che tornano a galla, forse, è già qualcosa.

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