“Dimentichiamo gli antisemiti ma non l’antisemitismo”, è il titolo di un articolo – pubblicato su il quotidiano online Il Foglio – a firma di Giacomo Kahn, Direttore della testata ebraica Shalom. “Si può accogliere l’idea – si domanda Kahn – che in alcuni casi un colpo di spugna sulle responsabilità di chi ha causato tragedie e ingiustizie sia la soluzione migliore ? Che per giungere ad una pacificazione degli animi, per abbandonare la conflittualità e consentire di dare vita a una una società fondata su un sentimento unitario e non più rivendicativo, sia necessaria una certa dose di oblio, di dimenticanza ?”.
“Gestire la memoria senza esserne sopraffatti – prosegue l’autore – , è un sentiero molto stretto: da un lato vi è il rischio di non portare mai a termine l’elaborazione di quanto accaduto, ma dall’altro c’è il rischio che un eccesso di oblio porti all’amnesia. E contro l’amnesia l’unica medicina è la verità. Se viene a mancare la verità vi è la disgregazione e la frammentazione”.
Kahn quindi si sofferma sul concetto di verità e di memoria così come si è sviluppato all’interno del pensiero ebraico e dove non c’è la verità c’è la morte. “Negare la verità vuol dire produrre un pensiero distruttivo. E’ quello che fanno i negazionisti della Shoah, e i neo-antisemiti quelli che non attaccano direttamente gli ebrei, ma che negano a Israele il diritto di esistere e di difendersi”. “I loro nomi – se non per gli aspetti penali – non contano, sono odiatori seriali, personaggi diversi ma che hanno in comune la negazione della verità: dalla donna che si faceva fotografare davanti ad un forno con la sciarpa pro Palestina; ad una ragazza con indosso una maglietta che ironizzava sulla Shoah con la scritta ‘Auschwitzland’; fino a coloro che – dentro l’Onu e forse anche dentro l’Unione Europea – dicono che non c’è mai stata una presenza ebraica sulla spianata del Monte a Gerusalemme. Sono tutti personaggi da cancellare dalla memoria dei nostri pc, come dalla memoria collettiva. Ma non sono da dimenticare le loro azioni”. E termina con l’invito di “dimenticarci di loro, dei loro inutili nomi, ma ricordarci sempre delle loro azioni, essere delle sentinelle, saper reagire ed indignarci ad ogni nuova provocazione, ad ogni ripetuta negazione. Il ricordo infatti non deve essere una visione ‘museale, dei fatti, non deve diventare un atteggiamento passivo. Il ricordo deve invece trasformarsi in azione, in un lavoro continuo, soprattutto educativo, per costruire un futuro che non neghi la verità. Solo così si può capire la curiosa ‘dimenticanza’ del vocabolario usato dalla Bibbia Ebraica nel quale non esiste la parola ‘storia’. Al suo posto – scritto ben 222 volte – c’è la parola ‘zachor’: ricorda”.