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    ITALIA

    Il rabbino Ariel Haddad aggredito per strada a Trieste: “Non ci pieghiamo agli insulti antisemiti”

    Lo scorso 26 giugno Rav Ariel Haddad, rabbino capo della Slovenia e responsabile del Museo della Comunità Ebraica triestina, è stato aggredito verbalmente da un passante a Trieste. Shalom lo ha intervistato su quanto accaduto e sul clima antisemita che stiamo vivendo.

    Iniziamo raccontando quello che le è successo dall’inizio.
    Camminavo tranquillamente per la strada, erano circa le 19:10, quando ad un incrocio una persona ha cominciato a sussurrare insulti sugli israeliani e sugli ebrei. La situazione è degenerata rapidamente con insulti gravissimi legati alla situazione in Medio Oriente. La cosa è durata due o tre minuti, perché non mi sono allontanato subito. Solamente una signora mi ha espresso timidamente solidarietà, ma la maggior parte delle persone tiravano dritto. Ma non è la prima volta che mi succede, un mese e mezzo fa da uno scooterista mi ha urlato “ebreo di merda” mentre andavo in sinagoga con mia figlia di 11 anni. Sono trent’anni che vivo a Trieste e sono stato testimone di diversi episodi antisemiti, questa volta però ho deciso di denunciarlo. La persona è stata identificata, adesso si vedrà dove si andrà a finire. Questo episodio è un amplificatore di un problema sociale preesistente.

    Dopo quanto accaduto continuerà a portare la kippah in maniera visibile?
    Il problema non è la kippah o il cappello, ma la reazione all’abito. Tutti ci esprimiamo anche attraverso il nostro vestire, comunicando ciò che siamo o ciò che vogliamo far vedere agli altri. Il 7 ottobre ha solo amplificato la situazione in cui la differenza tra ebrei e israeliani è diventata ancora più sottile. Anche se bisogna riconoscere che questa linea di demarcazione tra le due cose effettivamente non esiste. Si possono criticare i governi di Israele, ma criticarlo in quanto Stato ebraico non è legittimo.

    Come è cambiata la sua vita dopo il massacro di Hamas?
    Alla fine si cerca di mandare avanti la propria vita nel modo più normale possibile. Tuttavia, una cosa che ricordo chiaramente è che, quando avevo undici anni, nessuno mi aveva mai insultato chiamandomi “ebreo di merda”. Invece, a mia figlia è già successo. Questo ci fa capire che, mentre in alcuni aspetti sembriamo progredire, in realtà stiamo regredendo.

    Secondo lei, in che direzione sta andando la nostra società?
    Verso l’ignoranza. Affidarsi a mezzi di comunicazione discutibili è diventato la norma. Questi canali sono comodi e pratici, ma anche pericolosi, perché permettono a chiunque di diffondere qualsiasi idea. Oggi, questa realtà è semplicemente più radicata. Non si studia più, non si legge più, e non c’è nemmeno la volontà di farlo.

    In che modo questa ignoranza influisce sull’antisemitismo?
    Molte persone cercano di spiegare l’antisemitismo in termini sociali o psicologici, ma è riduttivo. Da praticante religioso, posso dire che l’odio verso gli ebrei va oltre il semplice razzismo; è qualcosa di viscerale. L’antisemitismo non può essere separato dalle sue radici religiose. Si ripresenta continuamente sotto nuove forme, ma il nucleo rimane invariato.

    Quindi, è un problema culturale?
    Assolutamente. La cultura occidentale è intrisa di antisemitismo e antigiudaismo. Anche se cerchiamo di depurare questi fenomeni dalle matrici religiose, non ci riusciamo. Le espressioni antisemite e razziste fanno parte del nostro inconscio collettivo e riemergono in momenti di crisi.

    Pensa che sia ancora possibile vivere apertamente la propria identità ebraica in Italia e in Europa?
    La domanda non è se si può, ma se si deve. E la risposta è sì. Non possiamo permetterci di rinunciare ai nostri diritti fondamentali. Dobbiamo correre i nostri rischi e lottare per i nostri diritti senza rinunciare alla nostra identità. Non possiamo tornare indietro; dobbiamo andare avanti.

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