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    Edoardo Ricchetti: la storia del giornalista ebreo romano deportato il 16 ottobre del ‘43

    Quella dei giornalisti ebrei italiani radiati dall’albo a causa delle leggi razziali del ’38, è una storia che rappresenta un esempio di come quella vergogna trovò in vari ambiti il modo di sopravvivere nel tempo, dopo la caduta del fascismo e oltre. L’Ordine dei Giornalisti dal Lazio ha scelto per questo, con un’operazione culturale ormai iniziata da anni, non solo di riabilitare le figure di quei giornalisti, ma anche di ricostruirne le singole storie.

    Un primo e importante passo per conoscere il passato che guarda al futuro. Riscoprire la vicenda dei giornalisti ebrei romani radiati dall’albo significa conoscere una ad una tutte le storie, e alcune tra queste sono il paradigma di come le leggi razziali furono solo un presagio di ciò che avvenne dopo.

    Tra le storie che questa vicenda ci racconta, vi è quella del giornalista ebreo romano Edoardo Ricchetti, deportato dai nazifascisti il 16 ottobre 1943. Proprio nella data comunemente conosciuta come quella della razzia del quartiere ebraico. Ma Ricchetti fu deportato assieme a sua moglie Elvira Sacerdoti in via Flaminia, e la sua storia ci ricorda che la razzia di quel 16 ottobre, compiuta dai nazifascisti, non si fermò al quartiere ebraico, e continuò nel tempo. Fu il primo atto in Italia di una tragedia che portò tanti ebrei romani, italiani, nell’inferno.

    Grazie all’iniziativa dell’Ordine, allo storico Enrico Serventi Longhi e alle pietre d’inciampo in Via Flaminia, è stato possibile contattare Maria Gabriella Ortolani, nipote di Edoardo Ricchetti, che ha condiviso con noi la storia di suo nonno, una storia drammaticamente simile a quella di tanti altri ebrei romani deportati dai nazifascisti all’alba di quel 16 ottobre.

    Maria Gabriella ci ha raccontato che prima di essere deportati i suoi nonni non avevano avuto alcuna avvisaglia di ciò che sarebbe poi accaduto: gli ebrei di Roma avevano consegnato i 50 chili d’oro pretesi dai nazisti, e anche i Ricchetti pensavano che ciò sarebbe bastato per vivere tranquilli. E così non fu. I nazisti arrivarono in via Flaminia, caricarono Edoardo ed Elvira sul camion, e dopo la sosta di due giorni al Collegio militare partì dalla stazione Tiburtina il treno diretto ad Auschwitz. A Padova

    I Ricchetti riuscirono a lanciare un biglietto scritto con mezzi di fortuna, destinato ai parenti: “Saluti e baci dai vostri vecchi amici”. Lo colse una signora, che lo spedì ai figli. Quel biglietto era un addio, perché Edoardo ed Elvira morirono ad Auschwitz.

    Dopo la Liberazione, racconta Maria Gabriella, i figli di Ricchetti ricevettero una lettera di un soldato fatto prigioniero e deportato nel campo di sterminio, che raccontava il tragico destino di Edoardo: il giornalista ebreo, dopo essere stato coinvolto in un macabro gioco dei nazisti, è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa.

    Maria Gabriella ricorda che sua madre rischiò di impazzire per quella lettera, tanto che suo padre scelse di liberarsi del documento. Oggi Maria Gabriella ancora conserva accanto al tesserino dell’Ordine di suo nonno, quell’ultimo biglietto che fu un addio.

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