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    Commento alla Torà. Parashà di Shemòt: il primo delatore

    Moshè fu tratto dalle acque dalla figlia del faraone che lo adottò. Egli crebbe
    da principe nella reggia sapendo chi erano i suoi genitori perché era stato
    allattato dalla madre Yokhèved. Poi “In questo periodo di tempo avvenne che
    Moshè, cresciuto in età, si recò presso i suoi fratelli. Notò i loro lavori
    pesanti e vide un egiziano che stava per uccidere di botte un suo fratello ebreo.
    Volto lo sguardo intorno e visto che non c’era alcuno, uccise l’egiziano e
    nascose il cadavere nella sabbia. Recatosi il giorno seguente presso i suoi
    fratelli vide due ebrei nitzìm [litiganti che erano
    passati ai fatti] e rivoltosi a quello che aveva torto, gli disse: perché batti
    il tuo compagno? E quegli rispose: chi ti ha delegato capo e giudice su di noi?
    Penseresti forse di uccidermi come hai ucciso quell’egiziano? Moshè allora ebbe
    paura pensando che l’incidente era diventato noto. Quando la notizia giunse al
    faraone si propose di uccidere Moshè. Moshè fuggì dal faraone e stette nella
    terra di Midian…” (Shemòt,
    2:11-15).

                    Chi erano i due ebrei
    che litigavano e chi era colui che diffuse ad alta voce la notizia che Moshè
    aveva ucciso l’egiziano? Rashì
    (Francia, 1040-1104) commenta che erano Datan e Aviram e che Moshè quando vide
    che c’erano dei delatori tra gli israeliti temette che non meritassero di
    essere liberati. Una delle fonti è il Talmud babilonese (Nedarìm, 64b) dove è scritto: “R. Yochanàn disse a nome di R.
    Shim’on bar Yochai che ogniqualvolta vengono usate [nella Torà] le parole nitzìm [litiganti] e nitzavìm [se ne stavano ritti] non si parla altro che di Datan e
    Aviram”.

                    R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) descrive in maggiore
    dettaglio la situazione. Moshè rivolgendosi ai due litiganti parlò a colui che
    stava per colpire il compagno. Trattandosi di due ebrei non agì come aveva
    fatto con l’egiziano che stava picchiando a morte un ebreo. Quando l’ebreo
    ammonito diffuse ad alta voce la notizia che Moshè aveva ucciso l’egiziano che
    stava picchiando un ebreo, Moshè non lo uccise perché un atto simile non
    avrebbe più avuto alcuna utilità.

                    R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in una
    sua derashà (Divrè Aggadà, p. 144) cita il Midràsh
    (Shemòt Rabbà, 1:28). L’ebreo ammonito
    che stava per picchiare il compagno era Datan. Lo stesso Datan era l’ebreo che
    il giorno precedente Moshè aveva salvato dall’aguzzino egiziano. In
    quell’occasione, per riconoscenza, Datan non aveva informato il faraone di
    quello che aveva fatto Moshè. L’aveva invece fatto il giorno dopo quando era
    stato ammonito.

                    Riguardo al
    trattamento legale dei delatori il
    Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Chovèl u-Mazìk,
    8:9-11) scrive: “È lecito uccidere il mossèr
    (delatore, che denuncia un altro ebreo e ne mette in pericolo la vita) in
    qualunque luogo perfino ai nostri giorni quando non si giudicano casi capitali
    […] e se [il delatore dopo essere stato ammonito di non fare delazione]
    risponde sfrontatamente che farà delazione è mitzvà ucciderlo e il primo che lo fa ha fatto un atto meritorio.
    Tuttavia una volta che il delatore ha fatto delazione ritengo che sia proibito
    ucciderlo a meno che non vi sia una presunzione che lo farà nuovamente…”.

                    Rav Vidal di Tolosa (Catalonia, XIV secolo) nel suo commento Maghìd Mishnè al Mishnè Torà scrive che non è permesso uccidere il delatore dopo che ha commesso il
    fatto. Questa regola la si deduce da quella del “rodèf” (persecutore). Nella Ghemarà (Sanhedrin, 73a) viene insegnato che quando qualcuno insegue un
    altro per ucciderlo è permesso salvare il perseguitato uccidendo il
    persecutore. Tuttavia una volta che il crimine è stato compiuto, il criminale
    va portato al bet din (tribunale).  

                    Il Midràsh racconta che quando Moshè
    ritornò in Egitto circa sessanta anni dopo, all’età di ottanta anni, Datan e
    Aviram erano ancora lì. Rav Elyashiv commenta che questa volta dopo anni di
    sofferenze non andarono a dire al faraone che Moshè e Aharon stavano preparando
    una rivolta. Dopo la richiesta di Moshè di lasciare uscire il popolo per
    servire l’Eterno, il faraone rese la vita più difficile agli schiavi ebrei, e
    Datan e Aviram si lamentarono dicendo: “Veda l’Eterno la vostra azione e vi
    giudichi, che ci avete reso odiosi al faraone…” (Ibid., 6:21).  Moshè si rese conto che le cose erano
    cambiate; non c’erano più delatori tra di loro e il popolo era unito e pronto
    alla liberazione dalla schiavitù egiziana.
      

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