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    Commento alla Torà. Parashà di Emòr. La matzà e l’obbligo di tenere conto di tutti

    La parashà di Emòr comprende un capitolo dal libro di Vaykrà (23:1-44) che viene letto nel
    secondo giorno di Pèsach e nei primi
    due giorni di Sukkòt. Il motivo è
    evidente. Questa sezione tratta tutti giorni festivi, iniziando dallo Shabbàt. Prosegue poi con Pèsach, coi 49 giorni dello ‘Omer, e poi Shavu’òt, Rosh Hashanà,
    Kippur, Sukkòt e Sheminì ‘Atzèret.

     R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo
    commento alla Torà (Vaykrà, 23:1)
    scrive che lo scopo di questo capitolo è di elencare le feste nell’ordine del
    loro ciclo annuale e di presentare le regole peculiari ad ogni giorno di festa.
    I giorni festivi trattati in questi capitolo hanno un concetto in comune con le
    regole riguardanti il Santuario trattate dall’inizio del libro di Vaykrà fino a questa parashà. Quello che il Santuario
    rappresenta nello spazio, i giorni di festa rappresentano nel tempo. Lo scopo
    di entrambi è di avvicinare Israele all’Eterno. Il messaggio a noi è questo:
    questi erano i giorni nei quali l’Eterno fu vicino a noi nel passato ed ogni
    anno quando questi giorni ricorrono, l’Eterno ci aspetta per rinnovare la
    vicinanza con noi.

     Riguardo alla festa di Pèsach, la Torà comanda che “nel
    quindicesimo giorno di questo mese [il primo mese dell’anno, che fu chiamato Nissàn al ritorno dall’esilio
    babilonese] è la festa delle matzòt dedicata
    all’Eterno; per sette giorni mangerete solo
    matzòt” (ibid., 23:6), R. Hirsch commenta che per sette giorni bisogna
    astenersi dal mangiare pane lievitato; l’ordine di mangiare matzòt per sette giorni può quindi essere compreso solo in senso
    negativo: chi vuole mangiare pane, può farlo mangiando solo matzòt, che è pane non lievitato.  Nel commento a Shemòt (12:15) R. Hirsch spiega che questo comando deve
    necessariamente essere compreso solo in senso negativo, perché non avrebbe
    senso comandare di mangiare matzòt senza
    interruzione per sette giorni. Lo stesso vale per la mitzvà di abitare nella sukkà
    dove è scritto “Abiterete per sette giorni nelle sukkòt” (Vaykrà, 23:42).
    Se qualcuno vuole stare al coperto in questi sette giorni deve farlo in una sukkà. Non significa quindi che per
    sette giorni si deva rimanere relegati nella sukkà e non viaggiare.

    R. Avraham Leib Scheinbaum (USA, 1946-) di Cleveland Heights (Ohio)
    nella sua raccolta di commenti “Peninim
    on the Torah” (vol. 24), racconta un episodio che ebbe luogo in Europa
    orientale circa cento anni fa. A differenza di quello che avviene ai nostri giorni,
    quando le matzòt per il sèder di Pèsach sono ampiamente disponibili, sia quelle fatte a mano e a
    maggior ragione quelle fatte a macchina, cento e più anni fa in alcune comunità
    le matzòt erano assai scarse. In una
    di queste città i capi della comunità ebraica erano riusciti ad ottenere una
    piccola quantità di matzòt “shemuròt”, quelle fatte sotto
    sorveglianza dalla macinazione da usare per il sèder di Pèsach.
    Bisognava quindi razionare. La questione era a chi distribuire queste scarse matzòt. La decisione dei capi della
    comunità fu di limitare la distribuzione agli israeliti più ligi alle regole e
    di escludere totalmente coloro che avevano abbandonato gran parte
    dell’osservanza delle mitzvòt e che
    anche durante Pèsach non erano
    particolarmente attenti a mangiare solo matzòt.
    Prima di implementare la loro decisione i capi della comunità decisero di
    consultare l’anziano e saggio R. Israel
    Meir Kagan (Belarus, 1838-1933) noto con il nome Chafetz Chayim, dalla sua opera di halakhà più nota, nella quale si distinse per essere il primo a
    presentare in forma organizzata e completa tutte le regole della maldicenza. R.
    Kagan rispose che la decisione dei capi della comunità di distribuire le scarse
    matzòt agli israeliti più ligi era
    totalmente sbagliata. Egli disse che bisognava dare queste matzòt proprio a coloro che “non erano ancora osservanti” perché
    per ogni matzà che avrebbero
    ricevuto, avrebbero mangiato meno cibi lievitati. Invece coloro che erano ligi
    alle mitzvòt non avrebbero in ogni
    caso mangiato pane lievitato anche in mancanza totale di matzòt. R. Scheinbaum conclude scrivendo che da qui si impara che è
    opportuno consigliarsi con un saggio di Torà prima di prendere decisioni e che
    in ogni decisione comunitaria bisogna tenere conto di tutti, anche di coloro
    che sono più lontani. 

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