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    Commento alla Torà. Parashà di Bo: per la libertà bisogna aver coraggio e saper soffrire

    A mezzanotte del quattordicesimo giorno del mese di Nissàn avvenne la morte dei primogeniti, l’ultima delle dieci
    piaghe d’Egitto. Gli israeliti avevano ricevuto l’ordine di prendere un agnello
    o un capretto il decimo giorno del mese e di sacrificarlo nel pomeriggio del
    quattordicesimo giorno. Questi animali erano adorati come divinità dagli
    egiziani; prenderli per sacrificarli era un esplicito atto di ribellione. Infatti
    solo pochi mesi prima il faraone aveva detto a Moshè e ad Aharon: “Andate e
    sacrificate al vostro Dio nel paese”. Con questo il faraone voleva dire loro
    che non avevano bisogno di andare nel deserto per servire l’Eterno come avevano
    chiesto. Moshè aveva risposto: “Non è appropriato fare così, perché noi
    sacrificheremo le divinità degli egiziani all’Eterno nostro Dio. E se
    sacrificheremo le divinità degli egiziani di fronte ai loro occhi non ci prenderanno
    a sassate?” (Shemòt, 8:21-22). Ora
    dopo mesi di piaghe, di fronte alla ribellione in massa degli israeliti, gli
    egiziani non reagirono.

                    Gli israeliti
    ricevettero l’ordine di mettere del sangue del sacrificio sui due stipiti e
    sull’architrave all’interno delle abitazioni dove avrebbero mangiato la carne
    allo spiedo. Poi sarebbero partiti di primo mattino. E per quella notte, mentre
    gli israeliti avrebbero fatto il primo Korbàn
    Pèsach, l’Eterno disse: “E durante questa notte passerò nella terra
    d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomini e animali, e
    farò giustizia di tutte le divinità egiziane, Io sono l’Eterno. E il sangue di
    cui saranno tinte le case dove abitate vi servirà da segnale. Riconoscendo
    questo segnale Io vi passerò oltre e il flagello non avrà presa su di voi
    allorché colpirò l’Egitto” (ibid., 12:13). 

                    Nel Midràsh (Shemòt Rabbà, 17:3) è citato il versetto del navì (profeta) Yechezkèl dove è detto: “E io
    ti passai accanto, vidi che ti dibattevi nel sangue, e ti dissi: Vivi, nel tuo
    sangue! E ti dissi: Vivi nel tuo sangue!” (Ezechiele, 16:6). I maestri
    affermano che questo versetto in cui si parla due volte di sangue, si riferisce
    al sangue del sacrificio di Pèsach e al sangue della circoncisione, perché gli
    uomini furono circoncisi prima di mangiare il sacrificio.

                    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 90) commenta: Lo
    schiavo odia il dolore fisico. Egli soffre abbastanza a causa del bastone del
    sorvegliante e non è disposto a sopportare pene fisiche che non servano ad
    aumentare la sua porzione di carne dalla pentola. Lo schiavo è un codardo:
    trema di fronte al padrone e al brutale sorvegliante. Dopo tutto lo schiavo non
    comprende l’idea di sacrificare se stesso, di combattere per un principio o per
    un ideale […]. Moshè venne a dire al popolo di sottoporsi a delle pene
    fisiche e di circoncidersi perché nessun uomo incirconciso avrebbe potuto
    mangiare il sacrifico di Pèsach, che
    era una delle divinità egiziane […]. Nonostante il rischio di sacrificare una
    delle divinità egiziane, gli schiavi accettarono sia la sofferenza fisica, sia
    l’ordine di sacrificare l’animale, con amore e senza paura. Erano pronti a
    pagare con il sangue per avere il privilegio di obbedire al comando divino. Per
    questo vi fu la risposta: “Vivi, nel tuo sangue! Vivi nel tuo sangue”.

                    R. Mordekhai Hakohen (Safed, 1523-1598, Aleppo) in Siftè Kohen (p. 326) a proposito di un
    simile midràsh, menziona R. Mattatià
    ben Charash, che fu capo della yeshivà
    di Roma nel secondo secolo E.V., che cita il versetto del navì Zekharyà (Zaccaria, 9:11) dove è detto: “E te pure [Israele] a
    motivo del sangue del tuo patto, io trarrò i tuoi prigionieri dalla fossa
    senz’acqua”. L’Eterno ordinò di prendere il sacrificio di Pèsach quattro giorni prima della sua consumazione perché facessero
    qualcosa per meritare la ricompensa della redenzione. Benché gli israeliti
    meritarono la redenzione grazie al fatto che in Egitto non si comportarono in
    modo immorale, non sparlarono uno dell’altro, mantennero la lingua ebraica e i
    nomi ebraici, questi meriti erano necessari ma non sufficienti per meritare la
    liberazione dall’Egitto. Era anche necessario mostrare coraggio di fronte agli
    egiziani e tenere per quattro giorni l’animale da loro adorato per sacrificarlo
    e poi saper soffrire con la circoncisione.
      

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