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    Addio a Giorgio Yehuda Algranati – da Roma aiutò gli ebrei dell’Urss ad andare in Israele

    Siamo quello che scegliamo. Le nostre decisioni ci compongono, ci contraddistinguono dagli altri ed elevano la nostra memoria con le generazioni future. Si può essere guidati dall’amore, dall’odio o da un ideale. Ad ognuno il suo. Per Giorgio Yehuda Algranati, scomparso il 17 aprile all’età di 93 anni, le scelte erano tutte dettate da un unico sentimento: il Sionismo.

     

    Giorgio Yehuda Algranati nasce nel 1927 a Firenze, figlio di un direttore di banca e di un’insegnante. Con le leggi razziali del ‘38, entrambi i genitori devono lasciare il lavoro e ricominciare. Il papà va in Francia alla ricerca di un futuro migliore per la sua famiglia, mentre Yehuda e la mamma rimangono in un primo momento in Toscana, salvo poi trasferirsi in Svizzera fino alla fine della guerra. Al rientro in Italia per il diciottenne, il bivio: trasferirsi in Israele o rimanere in Italia. Sotto le pressioni della madre, rimane a Firenze e studia Agronomia all’Università. Terminati gli studi, nasce lo Stato d’Israele e Yehuda decide di fare l’Aliya e di vivere in Kibbutz. Laureato, si mette a completa disposizione e ricopre ogni ruolo necessario. Per quindici anni gestisce le stalle del Kibbutz Ma’agan Michael, che contribuisce a fondare, ma lavora anche come cuoco e fotografo. “Non voglio essere di più, non ne ho bisogno. A me basta vivere in Israele”, la risposta a chi gli chiedeva perché un uomo colto e laureato svolgesse lavori così umili. Nel 1972, Yehuda si trova davanti all’ennesima scelta: gli viene chiesto di andare a Roma per aiutare gli ebrei dell’URSS a trasferirsi in Israele.

     

    Il contesto storico è fondamentale per comprendere il motivo della richiesta e le ragioni che spingono Yehuda ad accettare. Tra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta, lasciare l’Unione Sovietica era impossibile per i suoi cittadini, figuriamoci se ebrei. Per farlo era necessario un visto di uscita, un inferno burocratico, e una tassa che costava quanto una macchina. La crescita esponenziale di Israele, vittoriosa contro gli Stati arabi nella guerra del 1967, aumentava la voglia dei giovani ebrei russi, sottomessi ad una politica antisemita, di trasferirsi nella Terra Promessa: lì i loro correligionari potevano camminare a testa alta. Tuttavia era necessario oliare alcuni meccanismi per far sì che l’URSS accettasse una migrazione ebraica di massa in un paese straniero.

     

    Torniamo dunque a Yehuda. Gli viene chiesto di trasferirsi per un biennio a Roma e di usare le sue conoscenze e le sue abilità per smuovere la fredda Unione Sovietica ed agevolare l’uscita degli ebrei, passando per la Capitale. D’altronde il Governo dell’epoca, rigorosamente di centro sinistra, era in ottimi rapporti con l’URSS. Insieme al Movimento Culturale Studenti Ebrei, fondato tra gli altri da Dario Coen, Yehuda inizia, con la grande pacatezza che lo ha contraddistinto, e con la collaborazione di Luciano Tas, a rompere il granitico muro sovietico. Sit-in davanti alle linee aree russe, alle Ambasciate, volantinaggio alle manifestazioni, petizioni firmate dai grandi personaggi dell’epoca. Lentamente il gruppo riesce nel suo intento e iniziano le prime partenze. Dalla Russia verso Israele, passando per Roma. Lo stesso veniva fatto da altri protagonisti a Vienna, altra base operativa. Insieme alla famiglia, è rimasto a Roma fino al 1983, salvo poi ritornare a casa, in Israele.

    Come in un domino, il suo lavoro – e dei suoi colleghi – per la migrazione ebraica dall’ex URSS, ha avuto un impatto imprevedibile. Per capirne la portata, basterebbe domandarci se le relazioni tra Mosca e Gerusalemme sarebbero state così proficue e continue senza la presenza di quasi un milione di ebrei russi sparsi in tutta la terra d’Israele. Probabilmente no.

     

    «Per papà Roma non era un’aspirazione, ma lo ha fatto perché era necessario per aiutare Israele. Ci siamo trasferiti tutti: io, le mie due sorelle e mia madre – racconta il figlio Tamir – Non ha mai imposto nulla ai figli, ma ha sempre trasmesso i suoi desideri con delicatezza. In generale non ci diceva mai cosa fare, ma io lo so che lui voleva che restassimo in Israele. Avrei potuto andare ovunque, non mi avrebbe mai fermato, ma so che per lui era molto importante. Ci ha sempre detto che per un ebreo Israele è tutto. L’unico posto sicuro dove poter essere fieri».

     

    L’eredità tangibile di Yehudà è composta da 6 figli, 21 nipoti e 19 bisnipoti. L’eredità delle sue scelte, dettate dall’amore per Israele e per il Popolo Ebraico, invece, deve andare a comporre le nostre vite e i nostri racconti

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