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    ‘NON ODIARE’ UN FILM CONTRO IL RAZZISMO. ESCLUSIVA INTERVISTA AL PROTAGONISTA ALESSANDRO GASSMANN CHE INTERPRETA UN MEDICO EBREO DILANIATO DAL DUBBIO

    “Non Odiare” è il titolo del nuovo film realizzato dal regista Mauro Mancini, prodotto da Mario Mazzarotto, unico film italiano in concorso alla 35° edizione della Settimana Internazionale della Critica a Venezia, dove verrà proiettato per la prima volta domenica 6 settembre, per poi uscire nelle sale cinematografiche il 10 settembre da Notorius Pictures.

    Un film su un tema apparentemente lontano dal presente, ma che si rivela sempre attuale: l’odio razziale, uno spettro che si addentra nella vita dei personaggi; “né buoni né cattivi, ma semplicemente esseri umani” li definisce il regista, “personaggi ordinari alle prese con situazioni straordinarie”.

    Mancini ha scelto un cast d’eccezione: Alessandro Gassmann, noto attore italiano, figlio del regista Vittorio Gassmann, Sara Serraiocco, Luka Zunic e Lorenzo Buonora.

    È proprio Alessandro Gassmann, l’attore protagonista a raccontare a Shalom l’esperienza della produzione del film, che lo riavvicina in qualche modo alle sue origini ebraiche.

    Quale è la storia raccontata nel film “Non Odiare”?

    “Non Odiare” di Mauro Mancini è un’opera prima, ambientata a Trieste ed è la storia di un medico ebreo affermato e benestante, con una vita tranquilla che per caso si trova a soccorrere in un luogo isolato un uomo incastrato in una macchina dopo un incidente; sono da soli, l’altra macchina è scappata e non c’è possibilità di altro aiuto, quindi da medico decide di aiutarlo, visto che stava perdendo molto sangue, ma quando scopre che l’uomo sul petto ha tatuata una svastica, che ricorda la Shoà e il nazismo, decide di non salvarlo e lo lascia morire.

    Questo è l’incipit del film. Divorato dai sensi di colpa e dal rimorso, il protagonista cerca di avere un rapporto, senza chiaramente rivelare l’accaduto, con la famiglia del deceduto e inizia ad interessarsi al futuro dei figli.

    È un film sulla possibilità di perdono, sul parlare in un momento in cui tutti urlano e dove la comprensione e l’umanità stanno cedendo il passo ad altro e anche a cose che speravamo e immaginavamo finite per sempre, come appunto il nazismo”.

    Il protagonista del film, Simone Segre, appare come un personaggio particolare, alle prese con la scelta tra il suo dovere e il suo risentimento.
    Come descriverebbe il suo personaggio?

    “Simone è un uomo come tanti altri, con dei pregi e dei difetti: tra l’altro la storia inizia in un momento in cui lui deve andare a vendere una casa lasciatagli da suo padre, con cui non aveva più rapporto: il padre aveva vissuto il dramma e l’orrore dei campi di concentramento, quindi è proprio in quel momento della sua vita che avviene questo incidente. È un uomo con dei difetti, ma è anche un uomo che cerca di recuperare la sua vita. Devo dire che la sceneggiatura di Mauro Mancini in questo senso è molto sensibile, acuta e molto credibile, mi sono trovato molto bene. È un’opera prima già matura e spero che possa non soltanto piacere al Festival di Venezia dove sarà presentato, ma anche che faccia parlare le persone.
    Sono profondamente convinto che tutti i casi di razzismo, anche con matrici naziste o fasciste, che immaginavo fossero scomparse, non sia un caso che si ripresentino non soltanto in Italia, ma in tutto il resto d’Europa e del mondo. È importante parlarne, non possono passare in silenzio per quanto mi riguarda”.

    Si rispecchia in Simone in qualche modo?

    “Io ho avuto una nonna ebrea, Luisa, ho avuto nella famiglia di mia nonna persone deportate e uccise, quindi sicuramente è un tema che mi tocca moltissimo: mia sorella Vittoria è ebrea, ha sposato un ebreo, aveva una madre ebrea, quindi lo è in maniera totale e mi affascina molto parlare con lei. Tra l’altro questo film è stata l’occasione per girare nella magnifica Sinagoga di Trieste, la più grande d’Europa; per me è stata un’esperienza formativa anche in questo senso”.

    Vista la situazione attuale che vede un forte avanzamento delle manifestazioni di odio antisemita, specialmente sul web e sui social, qual è il messaggio che questo film dovrebbe trasmettere al pubblico?

    “Dobbiamo partire dai bambini: parlargli, ricordargli che la storia è importante e che non dobbiamo fare gli errori del passato. Per quanto mi riguarda l’errore più grave che è stato fatto dalla maggior parte delle persone nel passato è stato il non partecipare, il non prendere posizione: persone che non hanno fatto attenzione alle avvisaglie hanno poi creato quei mostri che ben conosciamo, e personalmente ne vedo in giro. Gli indifferenti sono la specie peggiore”.

    La sua famiglia è di origine ebraica. Qual è la vostra storia?

    “Mia nonna apparteneva ad una famiglia ebraica toscana: si chiamava Luisa Ambron, poi durante il Fascismo italianizzò il suo cognome in Ambrosi, ma poi tornò Ambron. Due cugine di mia nonna erano insegnanti a Pisa, furono prese, appunto in quanto insegnanti, quindi donne intelligenti, considerate pericolose, vennero deportate e uccise. Mio padre Vittorio si salvò durante il Fascismo perché era nella Nazionale di Pallacanestro, e sappiamo quanto la prestanza fisica, la forza dell’italianità fosse amata dai fascisti, quindi in parte salvò la famiglia proprio perché era uno sportivo. Tuttavia lui ha sempre ricordato malvolentieri quel periodo della sua vita, ha sempre avuto paura per il resto della sua vita e quando mia sorella si è sposata con il rito ebraico a New York per lui fu un momento di grande gioia, sia per il matrimonio, ma anche per i ricordi che riaffioravano e che lo avevano terrorizzato durante la sua infanzia: mio padre rimase orfano di padre a 14 anni e rimase a Roma con una sorella di un anno più grande di lui e con la madre ebrea, perciò la situazione in quella famiglia non era delle più rassicuranti”.

    L’attuale situazione dovuta alla pandemia non ha certo risparmiato il mondo delle arti. Qual è a suo avviso lo stato del Cinema e dei teatri in Italia a causa del Covid?

    “I danni sono stati tantissimi; le produzioni hanno ripreso a girare, io sono a Napoli a girare la terza stagione de “I Bastardi di Pizzofalcone”, che è un grande successo e stiamo lavorando con grandissima attenzione: ci facciamo il tampone tutte le settimane, lavoriamo con tutta la troupe con le mascherine, a distanza; è un lavoro molto più faticoso di quanto non fosse prima, ma credo che sia importante che la macchina del cinema e della televisione sia ripartita. Altro discorso è per quando arriveranno stagioni meno calde, quindi non ci saranno più proiezioni o spettacoli all’aperto: entrare nelle sale cinematografiche con la mascherina, mantenendo le distanze, non avendo la possibilità di riempire le sale sarà sicuramente drammatico per i gestori e per i proprietari sia di cinema che di teatri. Temo che tutto questo continuerà fin quando non avremo un vaccino e la situazione tornerà vivibile, non quanto prima, ma almeno potremo tornare tutti a fare il nostro lavoro. Il maggiore problema sono i lavoratori dello spettacolo, che non sono gli attori ma anche i tecnici, i macchinisti, gli elettricisti, il reparto costumi ecc.: parliamo di decine di migliaia di persone che hanno avuto, hanno e temo per un po’ di tempo avranno difficoltà ad andare avanti nel proprio lavoro e nella propria vita”.

    Per quel che riguarda il film, conclude Gassmann vuole finire questa intervista con parole di speranza e ottimismo: :Sono molto fiero di averlo fatto e non vedo l’ora di vedere l’effetto che avrà su chi lo vedrà”.

    Giorgia Calò

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