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    “La visita di Giovanni Paolo II non fu la fine di un cammino: quello è ancora in corso”

    Sono passati 35 anni dalla storica visita di Papa Giovanni Paolo II al Tempio Maggiore di Roma. Accolto dal Rabbino Capo Elio Toaff, il pontefice fece il suo ingresso in sinagoga alle 17 in punto. Lo storico abbraccio tra Toaff e Wojtyla fu salutato dal mondo intero come l’inizio di una nuova epoca per il dialogo ebraico-cristiano. Oggi chiediamo al Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Di Segni un bilancio di quella visita e le sue conseguenze sul “dopo”.

     

    La prima visita del Papa rappresentò la fine di un cammino pieno di relazioni, trattative e non pochi ostacoli. Su quali temi si trattò? Cosa spinse Rav Toaff ad aprire le porte del Tempio al Papa?

     

    Rav Toaff comprese subito che si trattava di un evento epocale, che avrebbe segnato un “prima” e un “dopo”, perlomeno a livello mediatico. Non la “fine” di un cammino, perché quello è ancora in corso. In realtà di spartiacque ce n’erano stati, prima di tutto la dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 1965. Ma in una società mediatica quello che conta sono le immagini essenziali e non i documenti teologici. Rav Toaff non poteva dire di no e non cogliere l’importanza dell’evento (che avrebbe trasformato anche la sua immagine, da quel momento sarebbe rimasta irrimediabilmente legata all’abbraccio) ma avvertiva che sarebbero state molte le obiezioni ebraiche a una apertura, ed effettivamente ci sono ancora; per questo cercò un ombrello nel rabbinato europeo, autorevole e ben disposto a differenza di altri. Le trattative, ridotte all’osso, furono su alcuni aspetti cerimoniali dell’organizzazione dell’evento. Sui temi, alla comunità interessava molto il riconoscimento dello Stato d’Israele, e il messaggio ricevuto fu che ci voleva ancora del tempo (sarebbe arrivato a fine 1993).

     

    Shalom apriva con il titolo “Venti secoli per un abbraccio”, per sottolineare lo spirito di conciliazione. Cosa cambiò in realtà, se cambiò qualcosa, al di là del suo impatto sensazionalistico, quella visita nelle relazioni tra mondo ebraico e chiesa?

     

    La sensazione ha un ruolo importante nelle relazioni. Per un fedele cattolico dire che “l’ha fatto anche il papa” ha senso. Chiunque abbia vissuto quegli anni può testimoniare che il rapporto dei cristiani nei confronti degli ebrei sia cambiato dopo, e proprio in conseguenza, di quella visita.

     

    L’anniversario è l’occasione di tornare sul dialogo tra ebrei e chiesa. Quali sono le criticità che perdurarono e che ritroviamo ancora oggi nel rapporto tra ebrei e chiesa?

     

    Molte questioni “teologiche” sono rimaste come erano o addirittura regredite rispetto ad aperture di quegli anni. La stessa Chiesa si trova oggi ad affrontare problemi completamente differenti da quelli di 35 anni fa, e il “fronte” ebraico è probabilmente diventato meno essenziale nelle sue preoccupazioni di oggi. Ma proprio per questo la differenza ebraica rischia di rimanere schiacciata o ignorata, come si è visto nella recente visita del Papa in Iraq. Il problema si complica nella prospettiva politica dei rapporti con lo Stato di Israele, con il quale, anche se è stata fatta una pace, esiste una sorta di pace “fredda”.

     

    In cosa è stata diversa quella visita, oltre che per la sua portata storica, rispetto a quelle che sono seguite?

     

    Evidentemente nella prima visita c’era la novità, la rottura di un tabù millenario. Ma questo non diminuisce la portata delle visite degli altri due pontefici, necessarie per dare un segnale di continuità, di crescita, e per mostrare quanto ogni momento e ogni leader abbia la sua individualità e personalità che non può essere appiattita.

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