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    Voci da Israele dei ragazzi lontano da casa

    Nei dormitori dell’Università IDC Herzliya, dove studio, vivo circondata da ragazzi da tutto il mondo: dagli Stati Uniti, dal Sud America, da quasi ovunque in Europa e persino dall’Africa, Asia e Russia. È un’esperienza arricchente, che apre gli occhi su molte realtà lontane dalla mia Italia e che dona prospettiva sulle discussioni di attualità. Il conflitto israelo-palestinese non fa eccezione, anzi è diventato il dibattito centrale della maggior parte delle nostre conversazioni. Curiosa, non posso fare a meno che tempestare di domande i miei amici. 

    Cosa ne pensa la tua famiglia del fatto che tu sia qui in Israele durante questo conflitto?
    “La mia risposta sarà piuttosto interessante” mi dice Jakob, 19 anni da Boston. Metà della sua famiglia è in America, mentre l’altra metà, prima dell’inizio del conflitto, lo è venuto a trovare qui a Herzliya. Sorprendentemente, mi spiega Jakob, a Boston sono molto più preoccupati della situazione di quanto non lo siano i sui parenti qui in Israele. Per quanto la quotidianità venga costantemente interrotta da allarmi, in Israele ci si sente protetti con rifugi anti missili ovunque e la consapevolezza di un governo che investe costantemente sulla tutela dei propri cittadini. Inoltre, vivere in un paese in guerra per molti ebrei è diventato, paradossalmente, meno pericoloso che essere nelle città di tutto il mondo dove i cori dei manifestanti che dichiarano di difendere i diritti dei palestinesi si trasformano in mostruosità antisemite. 

    E i tuoi amici che opinione hanno del conflitto?
    “Molti hanno paura di dire ciò che pensano” ammette Ben riguardo ai suoi amici da Ginevra, Svizzera. Mi racconta che ultimamente leggendo il giornale svizzero e trovando solamente titoli del tipo “Israele intensifica gli attacchi aerei contro Gaza” ha deciso di agire diventando più vocale sui suoi social postando la realtà che sta vivendo lui. I suoi amici più stretti però, che sono pro-Israele, non possono fare lo stesso, infatti non solo i media ma anche tutti intorno a loro hanno preso aggressivamente la posizione opposta. Preferiscono tacere perché se si esprimessero ci si aspetterebbe da loro una solida conoscenza del conflitto in tutte le sue sfaccettature e perché se anche provassero a discuterne verrebbero irrimediabilmente emarginati. “Israele è in guerra, ma io mi sento molto più al sicuro qui che fra le urla antisemite e la violenza dei manifestanti pro-Palestinesi a Ginevra”. Ben non è il primo a parlarmi di questa pressione sociale. Infatti, in America, mi spiegano Emanuelle e Julia, rispettivamente da Miami e da Philadelphia, il dibattito è diventato totalmente politico. Si è creato un vero e proprio effetto di “Cancel Culture” in cui avviene un sistematico boicottaggio dei conservatori prevalentemente pro-Israele. Quando essere politicamente corretto si traduce nel sostegno unilaterale della causa palestinese, quando la demonizzazione di Israele e la decisione di chiudere un occhio su tutti i missili lanciati da Gaza diventa la definizione dei tanti nuovi attivisti dell’essere “woke” non viene solo messa in pericolo la libertà di espressione ma l’incolumità stessa di chiunque abbia opinioni opposte o anche solo più moderate. In questo modo l’antisemitismo torna a filtrare nella società trasformandosi come un virus in qualsiasi cosa il nuovo movimento politico di tendenza odia di più. 

    In questa atmosfera ostile ad Israele in che modo stai contribuendo a difendere la tua nuova casa?
    Bella e Tabby da Londra, Jonni da Amsterdam e Marcel e Danny da Atene si impegnano il più possibile nel dibattito online confutando e cercando di limitare la diffusione di fake news. Emanuelle ha organizzato con successo una raccolta di donazioni di cibo e giocattoli per i bambini e i soldati ad Ascalona, una delle città più colpite dai missili. Sam da New York afferma:“Spero non si arrivi mai a questo, ma se Israele ne avrà bisogno io sono pronto ad arruolarmi come volontario”.

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