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    Una svolta storica alla prova della politica

    Dopo dodici anni, da oggi, Benjamin Netanyahu non è più il primo ministro di Israele, sostituito da Naftali Bennett.  È una svolta epocale per lo stato ebraico, la fine di un’epoca. Da ministro dell’economia Netanyahu è stato l’artefice del grande successo economico israeliano,  da primo ministro ha ampliato molto il sistema di relazioni diplomatiche di Israele, ha contrastato la volontà dell’amministrazione Obama di giungere a un accordo con il regime terrorista dell’Iran a spese dei suoi alleati tradizionali, ha concluso con l’accordo di Trump gli “accordi di Abramo”, rompendo il tradizionale accerchiamento dei paesi arabi e dando una svolta finalmente realistica al conflitto mediorientale; ha infine guidato personalmente l’emergenza Covid, facendo di Israele lo stato al mondo che ha combattuto con maggior successo l’epidemia. Israele è oggi al suo punto di massimo successo storico. Netanyahu è stato insomma un grandissimo protagonista della politica israeliana, che i sondaggi mostrano essere ancora il preferito del pubblico israeliano per il posto di primo ministro, come il suo partito Likud è ancora di gran lunga il più votato.

     

    Come mai dunque nel nuovo governo non c’è Netanyahu né il Likud, anzi si tratta di una maggioranza il cui scopo principale è l’eliminazione  politica del vecchio premier? La ragione, a parte l’indubbio cattivo carattere e le accuse pretestuose di corruzione che stanno mostrando in tribunale la loro scarsa consistenza, è stata proprio il suo successo, la sua longevità al governo, il sistema di potere che si è creato intorno a lui, a partire dalla famiglia. La crisi che almeno provvisoriamente si risolve oggi si è aperta tre anni fa, quando dalla maggioranza di centrodestra che governava si è sfilato Avigdor Lieberman, che di Netanyahu era stato assistente e guidava un partito di destra prevalentemente costituito da immigranti dall’ex Unione Sovietica, “Israel beitenu”. In seguito si sono staccati da lui altri suoi ex collaboratori come lo stesso Bennett e Gideon Sa’ar, unendosi agli avversari di sempre della sinistra nel tentativo oggi riuscito di spodestarlo. Ci sono state quattro elezioni, indagini giudiziarie, pressioni internazionali di vario tipo, congiure, tradimenti, trattative convulse. E alla fine si è costituita una maggioranza anomala di sinistra-destra, che ieri in una tumultuosa seduta del parlamento israeliano è riuscita a prevalere per un solo voto (60 a 59), nominando primo ministro il leader di un partito che ha poco più del 5% dei voti ed è in caduta libera nei sondaggi.

     

    Netanyuahu si è battuto fino all’ultimo, proponendo via via vari a Saar e Bennett e Gantz compromessi che prima aveva rifiutato, dall’alternanza nella guida del governo fino al suo provvisorio ritiro dalla vita politica; ma sono tutti arrivati sempre troppo tardi per avere successo. Il risultato è un governo da cui è escluso non solo il Likud, che rappresenta l’israeliano medio fuori dai grandi centri di Tel Aviv ma anche i partiti religiosi. Israele ha di nuovo un governo con pieni poteri, che mancava da tre anni con la breve eccezione del governo Netanyahu/Ganz, fallito dopo qualche mese alla fine dell’anno scorso. Ma questo governo ha una maggioranza molto esile e già messa in dubbio da alcuni deputati che hanno dichiarato di averlo votato per chiudere la crisi politica ma di non sentirsi legati alla sua disciplina. Il paese è diviso, con le parti più militanti della destra furibonde contro Saar e soprattutto contro Bennett che le esprimeva fino a qualche mese fa, tanto da aver provocato un allarme pubblico molto inconsueto da parte del responsabile dei servizi segreti.

     

    A parte la determinazione di stabilire dei meccanismi giuridici per mettere fuori gioco Netanyahu anche legalmente (il che la dice lunga sulla sicurezza di sé della maggioranza), il programma di governo è molto generico: la costruzione di qualche ospedale e università,  alcune riforme per indebolire il peso religioso del grande rabbinato, la riaffermazione dell’opposizione all’armamento nucleare dell’Iran, lo sviluppo della posizione economica della minoranza araba. La scelta che ha fatto il grande regista del nuovo governo, il primo ministro “alternato” (cioè quello che è destinato a diventare primo ministro a metà del percorso previsto del governo, nell’autunno del 2023) è di non mettere in discussione i temi controversi fra le forze politiche del suo governo, che sono tanti: la posizione degli insediamenti oltre la linea verde, i rapporti con i movimenti palestinisti, con gli Usa e con l’Europa, o il problema di un sistema giudiziario che in questi anni si è affermato come un vero contropotere rispetto al parlamento. Per tutti questi temi, la clausola che ha messo insieme la maggioranza è stata il mantenimento dello status quo. Ma la politica non aspetta, che si tratti di sfide esterne che certamente arriveranno – perché i nemici di Israele saranno certamente tentati di mettere alla prova la determinazione del nuovo governo – o di iniziative interne, perché ogni forza politica tenterà di ottenere qualche risultato simbolico per accontentare i propri sostenitori, una volta esaurita l’euforia del parricidio. E quel che piacerà ai sostenitori dell’estrema sinistra di Meretz senza dubbio sembrerà sbagliato alla base di Bennett e viceversa. Insomma bisogna aspettarsi nuove tensioni e nuove difficoltà, che derivano non dalla volontà dei singoli politici, ma dalla frammentazione del sistema e dell’elettorato.

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